La questione del Colle si pone ed è decisiva. Non tanto per la sorte della prossima legislatura, che forse non sarà brevissima come molti prevedono, ma nasce sotto una cattiva stella, quanto per il modo in cui una classe dirigente morente, se non già morta, passerà le consegne a un mondo e a una nuova classe, ancora avvolti nella nebbia. Il rito del Colle prevede un fitto tramestio occulto, con il fremere dei palazzi che contano. O contavano. La prossima elezione dovrebbe, invece, essere preceduta da un franco dibattito pubblico. Nella consapevolezza che non si tratta di piazzare una persona o comporre un mosaico di sistemazioni, ma di assicurare un equilibrio politico e istituzionale, capace di reggere in tempi che saranno convulsi.
Nella storia costituzionale si distinguono quattro stagioni: a. quella della nascita, quando il Quirinale repubblicano fu messo nelle mani di monarchici (De Nicola, capo provvisorio, e poi Einaudi), a dimostrazione che si aveva la percezione del necessario equilibrio assimilatore, dato che il risultato del referendum istituzionale era stato netto, ma non travolgente; b. quella del consolidamento, con presidenti espressione diretta della maggioranza parlamentare, pur con le infinite sfumature del corpaccione democristiano (lo stesso Einaudi, poi Gronchi e Segni); c. quella dell’apertura a sinistra, anche qui con tanti tira e molla (Saragat, Leone, che fu eletto per impedirlo e varò il governo la cui maggioranza comprendeva i comunisti, Pertini e lo stesso Cossiga, che fu l’ultimo della prima Repubblica); d. quella della seconda Repubblica, priva di basi costituzionali specifiche (Scalfaro, Ciampi e Napolitano).
Gli ultimi tre presidenti hanno una caratteristica politica comune, al di là delle molte altre differenze: sono antagonisti della maggioranza elettorale che ha costantemente accompagnato la vita della seconda Repubblica. Con loro s’è incarnato un principio opposto a quello che fu (saggiamente) adottato agli albori della Repubblica, nel senso che il loro ruolo non è stato includente, ma di difesa rispetto a quella maggioranza. Sono stati garanti che la maggioranza elettorale non avrebbe potuto fare più di tanto. E ci sono riusciti. Il che, sia detto con chiarezza, non giustifica e risolve i gravi insuccessi del centro destra, che di contraddizioni e botole ne aveva a sufficienza già al suo interno. Ma è bene non dimenticarlo, se non altro per capire.
La costante, dal 1948 in poi, è rappresentata dal progressivo crescere del ruolo del Colle. Per non parlare delle “esternazioni”, che se si prendono le misure raggiunte negli ultimi lustri Francesco Cossiga può essere considerato un presidente taciturno.
Eccoci al presente, con l’agonia della seconda Repubblica protratta oltre ogni accanimento terapeutico. Se si riprodurrà lo schema del 2006, ovvero di una sinistra che vince e (grazie al porcellum, di cui la destra porterà imperitura colpa) prende tutto, è segno che non s’è imparato nulla e che s’intende protrarre il clima di contrapposizione. Per non dire di guerra. E lo si protrae in un quadro internazionale che non garantisce più la sovranità nazionale limitata (dalle alleanze), ma tende alla sottrazione di sovranità. Serve, allora, un presidente che non sia la trasfigurazione della momentanea maggioranza parlamentare, sempre indotta dall’improvvido premio previsto dalla legge, bensì che raccolga la fiducia e la partecipazione della maggioranza elettorale costante, che dal 1994 in poi trova sfortunata destinazione nel centro destra.
Credo che sia chiaro e non servano altre parole. Non mancano gli uomini (uso il plurale per mera cortesia istituzionale) per assolvere sia alla rappresentanza che alla garanzia, aprendo la strada al ridisegno costituzionale e politico, traghettando l’Italia senza traumi ulteriori. Guai, però, se ne mancherà la consapevolezza. Se mancherà la capacità di sentire questo problema. Oso aggiungere che il gruppo dirigente berlingueriano non avrebbe commesso un così madornale errore.
Pubblicato da Libero