Politica

La rogna e il mercato

Le uniche cose garantiste, a proposito del caso Penati, si sono lette qui. Come sempre non a difesa dell’indagato, ma del diritto. Proprio per questo è opportuno precisare un paio di cose, specie innanzi all’imbarazzante festival dell’ipocrisia che sta andando in scena.

Non accantoniamo, ma affrontiamo la questione della diversità etica della sinistra. Ci torna anche Giuliano Pisapia, confermando la sua esistenza, sebbene per il passato. Ha ragione, i comunisti, in tema di soldi portati alla politica, erano diversi. Nel senso che erano peggiori. I partiti della sinistra democratica, come gli altri, si finanziarono illecitamente, con soldi provenienti, per la gran parte, da aziende e appalti pubblici. Il pci si finanziò illecitamente, sia con quel tipo di soldi che con quelli sporchi di sangue e provenienti da una potenza militarmente nemica e da una dittatura che affamava il suo popolo. E’ diverso, indubbiamente.

Dall’altra parte, però, vorrei non si diffondesse l’euforia egualitaria, per cui gli scandali sinistri pareggiano quelli destri. Sapere che il più pulito ha la rogna non è una consolazione, ma una disperazione. Né il rimedio può consistere nella rinuncia alla prescrizione, ovvero al diritto esistente, perché nel caso di Claudio Scajola sarebbe un modo per coprire una procura che lo ha indagato fuori tempo, apposta per chiuderla lì e suggellare il già procurato disonore mediatico, nel caso di Filippo Penati, significherebbe pretenderne l’arresto, visto che in assenza di giudizio non può rinunciare a un fico secco. A quanti straparlano vorrei far osservare che esiste anche una via giudiziaria, consistente nel ricorso per cassazione. Singolare che la scartino quelli che passano il tempo a santificare i magistrati.

Il problema, però, come la soluzione, si trovano da un’altra parte, vale a dire nella presenza dello Stato e delle autonomie locali nel mercato. L’attività politica è discrezionale, sicché è saggio toglierle le attività economiche dalle mani. Questo è il nocciolo, che riporta ad una ricetta, liberalizzazioni e privatizzazioni, del tutto coerente con i bisogni di bilancio. Sebbene indigesta a chi fa politica apposta per “gestire”.

La spesa pubblica e gli appalti che ne derivano sono difficili da smontarsi quando ricorrono due condizioni: a. di quei denari vivono le forze politiche; b. quella fonte di lavoro è indispensabile per mantenere in vita le imprese nazionali. Sono due condizioni negative, intendiamoci, due mali. Ma pure hanno un senso. Oggi, però, non è vera nessuna delle due cose: 1. quelli che si muovono sono interessi personali, che si definiscono “politici” sol perché ne sono portatori eletti e amministratori pubblici; 2. i grandi appalti vanno a multinazionali, le regole europee impediscono di sussidiare le imprese nazionali, il sottomercato che è loro riservato è quello dei sub-appalti, con il risultato che si spende 100 per fare arrivare 20 (forse) ai favoriti. Non c’è ragione di tenere in piedi il baraccone. Produce solo costi e guai.

La regola cui attenersi è lineare: tutto quello che lo Stato non è obbligato a gestire direttamente è bene che sia restituito al mercato. Questo userà la logica del profitto e non quella dello spreco, tenderà a minimizzare i costi per massimizzare il guadagno, anziché massimizzare la spesa per minimizzare i rischi, penali ed erariali, che l’amministratore pubblico corre per favorire un determinato interesse.

I ladri e i profittatori ci saranno sempre, come ci sono sempre stati. Scoprirli e punirli è compito della giustizia, non di una fiera medioevale ambientata nell’era della comunicazione elettronica. Ma comprimere e rendere minima la spesa direttamente gestita dallo Stato non solo libera ricchezza per il mercato, ma libera la politica dall’essere il più ambito mestiere dei lestofanti. Ridurre lo spazio della gestione politica della spesa è il più utile contributo che si possa dare ad un’Italia che voglia ripartire cambiando, e non trascinarsi eguale a sé.

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