Non è facile smontare una misura assistenzialista, quale è il Reddito di cittadinanza. Il suo scopo dichiarato era quello di favorire il reinserimento nel mercato del lavoro, cosa che è avvenuta per una percentuale minima, un percorso intrapreso da appena il 12.7% dei beneficiari. I Navigator non pervennero. I Centri per l’impiego latitarono. Un fallimento. Ugualmente non è facile smontarlo, perché quando si distribuiscono quattrini senza produrre ricchezza, aumentando la povertà anziché ridurla, poi ogni stretta retromarcia sarà attaccata quale schiaffo alla miseria. Come non ne avesse ricevuti abbastanza.
Premesso che stiamo parlando di anticipazioni, mentre ancora il governo meritoriamente studia il modo per uscire da quel dispendioso fallimento, alcune delle idee che girano meritano una critica specifica, sperando sia utile ad evitare possibili e ulteriori errori.
Quotare a 500 euro il contributo a chi è povero e non può lavorare, non sembra risolvere il suo problema. La prima cosa da farsi, se si vuole aiutare chi è povero e non può lavorare, è istituire una banca dati unica dell’assistenza, perché scoprendo le sovvenzioni sovrapposte si individuerà chi fa il povero di mestiere e si libereranno risorse da destinare ai servizi di cui ha bisogno chi versa in condizioni d’indigenza. Quotare a 375 euro il contributo a chi è povero, può lavorare, ma non lavora, riduce, come l’altro livello citato, la spesa, ma si tratta dello stesso schema che ha fallito, solo dotato di meno quattrini. Posto che dei circa 400mila percettori di sovvenzioni abili al lavoro la gran parte non sa fare niente, il problema è insegnare loro qualche cosa e restituirgli la dignità del guadagno, non solo la sovvenzione della spesa.
C’è un altro aspetto, che mi pare preoccupante: si ipotizza uno sgravio fiscale, pari al 100% dei contributi previdenziali, per la durata di 24 o 12 mesi (a seconda che il contratto sia a tempo pieno o parziale), a favore del datore di lavoro che assumerà un percettore di quella che si chiamerà Mia (Misura inclusione attiva), ovvero la rimodulazione del precedente sistema. Ora, a parte il fatto che i contributori previdenziali, in Italia, sono troppo pochi e non troppi, e a parte che il contributo della fiscalità generale (le tasse che non pagano proprio tutti, ma che chi le paga ne paga troppe) alla spesa previdenziale è già molto alto, a parte questi dettagli, in quel modo chi ha avuto soldi dallo Stato, quindi è stato favorito, avrà un favore in ragione del favore, ovvero una dote fiscale che gli altri in cerca di lavoro non avranno. Avendo la “colpa” di non avere preso quei soldi.
Il che comporta alcune pericolose distorsioni. 1. Ci sarà la ragionevole corsa a rientrare nei parametri per prendere Mia, altrimenti sarà poi ben più difficile trovare lavoro. 2. Una simile misura, non rispondendo ad alcun criterio, asseconda solo la voglia statale di liberarsi di un sovvenzionato, accettando di sovvenzionare chi se lo accolla. 3. Le imprese saranno spinte a privilegiare l’assunzione dei Mia-tenenti, visto il loro ridotto costo totale, magari a discapito di un altro lavoratore già più esperto e formato, il che non giova di sicuro alla produttività. 4. Senza contare che chi si vedrà posposto perché non ha la sua Mia, magari dopo avere frequentato, lui sì, un corso di aggiornamento o formazione, maturerà una delusione che sarà già molto se non si trasformerà in rabbia.
Il tutto in un Paese in cui l’economia cresce, l’occupazione anche e non mancano i posti di lavoro, ma i lavoratori che sappiano fare quel che serve e siano nelle condizioni economiche e di servizi per trovarsi dove è necessario.
Il male italiano della produttività (media, perché dove andiamo forte battiamo gli altri europei) è curabile, con formazione ed elasticità contrattuale. Non è una buona idea trattarlo con la sedazione e terapie di mantenimento, altrimenti si riproporrà in continuazione, come la roba indigeribile.
Davide Giacalone, La Ragione 8 marzo 2023