Teniamo tutti famiglia. Quelle a carico della collettività non sono poche. C’è una cosa nella quale i moralisti senza etica sono specialisti: rimproverare agli altri quel che essi farebbero, se solo si trovassero al loro posto. A cominciare dal sistemare i congiunti. Vale per i palazzi della politica, ma anche per le corsie d’ospedale, per le università, per il giornalismo. Poi ci sono delle varianti fantasiose, se non proprio ammirevoli, come quella di declassare le amanti in disuso.
A proposito di Renzo Bossi, candidato alle elezioni regionali, in Lombardia, vedo già inanellarsi la collana dei luoghi comuni. A me danno un fastidio epidermico, so che contengono molto di vero, ma non digerisco l’overdose d’ipocrisia. Proviamo a guardare oltre l’evidenza. E cominciamo con l’evitare di dire le solite banalità, l’usuale conformistica condanna di costumi che si suppone siano solo nazionali e solo degli avversari. Prendo ad esempio un solo Paese, la più grande democrazia del mondo: John Kennedy mise suo fratello Robert a fare il ministro della giustizia; la famiglia Bush annovera due presidenti e due governatori; l’attuale ministro degli esteri, Hillary Rodhan Clinton, è la moglie dell’ex presidente, nonché ex candidata alla sua succesione. Può bastare, senza far girare oltre il più che generoso mappamondo.
Il fatto che non sia una nostra esclusiva, però, non significa che sia una buona cosa. Mi piace pensare che i figli sappiano essere migliori dei padri, e, in qualche caso, il compito non è così arduo. Difficile che lo diventino, però, se il posto in cui si trovano lo devono al potere paterno, o familiare. Di Renzo il padre disse che non si trattava di un delfino, ma di una trota. La famiglia ha già fornito assistenti parlamentari a degli eletti leghisti. Robetta, al confronto di chi ha costituito partiti come società familiari, cui fa intascare i contributi statali. Ma robetta significativa, perché di Umberto Bossi si può pensare il peggio o il meglio, a secondo dei gusti, ma non si può negargli né il fiuto politico né la carica rivoluzionaria. Sicché ci si sente confortati o sconfortati, anche qui, a secondo dei gusti, nel vederlo arruolato sotto la più invitta delle bandiere nazionali: tengo famiglia (che, nella versione contemporanea, sovente suona: tengo famiglie).
Il guaio è che, a forza di ridurre i partiti a marchi elettorali o a proprietà personali, il mondo degli eletti s’è andato riempiendo di famigli: gente che ha anche, magari, qualità professionali, nessuna delle quali, però, ha minimamente contribuito a portarli dove si trovano. L’idea, perseguita con coerente distruttività, è stata quella di colmare la politica di soggetti che non facciano politica. Che non siano portatori d’idee proprie, ma, al più, di biografie coerenti con l’immagine del capo, o sufficientemente scialbe dal non dovere essere prese in considerazione. Cultura e giornalismo hanno partecipato con slancio, promuovendo i professionisti del luogocomunismo e preferendo la spettacolarità delle smargiassate all’urticante fastidio della coerenza. Procedendo per schieramenti, piuttosto che per idee. L’effetto è apprezzabile a occhio nudo, ed è già un bel risultato quando di nudo c’è solo l’occhio.
Una classe politica così combinata dovrebbe spiegare che il Paese sta strisciando da troppo tempo, si sviluppa meno dei concorrenti e con costi pubblici troppo elevati, quindi necessita di maggiore libertà nel mercato, maggiore elasticità nel lavoro, al fine di promuovere l’affermarsi del merito e delle capacità, che sono beni collettivi, non privilegi individuali. Dovrebbe promuovere iniezioni massicce di meritocrazia, perché solo ponendo potere e ricchezza in capo ai più bravi si riesce a smuovere le acque stagnanti nelle quali mariniamo. Ma chi ha la forza, e la faccia, per farlo? Non certo il sindacato, che non rappresenta i lavoratori, ma una minoranza di pensionati. Non il mondo dell’impresa, che ancora corre dietro alla commessa pubblica, quando non direttamente alla sovvenzione, che rischia i soldi miei, anziche i propri. Non la politica, combinata come appena detto. Chi? A parlare, quindi a sbagliarci, in libertà siamo rimasti in pochi, sorretti più dall’estrosità, talora dalla megalomania, che dalla convinzione d’essere realmente utili.
Eppure ci troviamo in un grande Paese, in una delle più forti economie del mondo, con potenzialità enormi, che potrebbero essere scatenate. Sentiamo il rombo di quello che a me sembra essere un potente motore, ma talora siamo presi dal dubbio sia solo l’effetto di una travagliata digestione.
Se il problema fosse la trota, potremmo lasciare al conformismo moralistico il compito d’occuparsene, suggerendo all’interessato di curarsene tanto quanto si curò dei libri scolastici. Il fatto è che, presto, raggiungerà i suoi simili, consolidando la drammatica mancanza di classe dirigente, senza distinzione di schieramento e senza limitazione alla sola politica. E questo è un problema collettivo, non una questione familiare.