Politica

La zona rossa

Voglio credere che oggi si dia torto ai seminatori d’odio e diffusori di sventura, ovunque si collochino. L’allarme bomba di ieri, nella metropolitana di Roma, non è certo un bel segnale. Mancava l’innesco, non sarebbe servita a uccidere, ma certo a soffiare sul fuoco, come in troppi, irresponsabilmente, fanno.

Manifestare e protestare è un diritto, che difendo pur non condividendo affatto le tesi di chi sfila e urla senza troppo ragionare (se gli studenti avessero coscienza della realtà oggi si dovrebbe sorvegliare il rettore di Tor Vergata, che ha provveduto a mettere in cattedra la nuora, e il rettore della Sapienza, che ci ha messo il figlio, prima che la legge impedisca loro di considerare l’Università come il tinello di famiglia). La violenza non ha nessuna giustificazione, e quelli che spaccano tutto sono feccia che merita la galera. Quel che molti dimenticano, intenti a sgomitare per farsi vedere, è che solo nella legge si trova l’equilibrio che tutela i diritti, ivi compreso quello all’incolumità, e quel che quasi tutti dimenticano è che la legge (quindi il diritto) sta diventando irrilevante perché non funziona ciò che dovrebbe darle forza: la giustizia.

Lo studente che sfila pacificamente, come il passante che lo incrocia o il negoziante con le vetrine affacciate sul percorso, hanno tutti l’eguale diritto a che il violento non rovini la protesta, la vita e il commercio. Ho sentito dire, in questi giorni, fin troppe sciocchezze pericolose. Ho sentito illustri cattedratici ricordare con nostalgia i tempi in cui erano i “servizi d’ordine” dei movimenti a garantire la sicurezza. A parte il fatto che non garantivano un accidente, a parte il dettaglio che erano illegali (non è consentito aggirarsi armati, sia pure di mazze ferrate, così come non è consentito sfondare il cranio altrui a colpi di casco), vorrei ricordare che è da quei servizi d’ordine che venne la manovalanza armata degli squadroni della morte. Ho sentito dice che tracciare i confini della “zona rossa”, ovvero di quartieri ove non sarà consentito manifestare, come già si è fatto la settimana scorsa e come si fece a Genova, sarebbe una “provocazione”. Di chi, di che? Tutte le manifestazioni pubbliche, anche quelle ciclistiche, hanno un percorso autorizzato, dal quale non possono uscire. Fra gente civile basta un cartello, o un nastro bicolore. Se temo che non tutti siano civili metto le forze dell’ordine a presidiare il confine. Non rispettarlo significa esporre a serio rischio la vita delle persone, perché il fiume umano può divenire una corrente assassina. Quindi è proibito, punto e basta. Dirò di più: sono favorevole al fermo di chiunque deragli. Ho anche sentito dire che, per evitare pericoli, si potrebbero arrestare preventivamente i facinorosi, modello partite calcistiche. Capisco che a taluni sia oscuro il confine fra lo spettacolo e la manifestazione del pensiero, così come fra il diritto di voto e il televoto per il grande fratello, ma tutto sta ad intendersi: le misure interdittive e preventive esistono da sempre, ma occorre poterle applicare. Il che avviene a cura dei poteri preposti, non per editti d’incerto conio.

E qui si torna alla questione giustizia. In un Paese civile, la teppaglia esibitasi a Roma sarebbe già passata davanti al suo giudice. Ci sono i filmati e ci sono i fermati. Il processo non si fa in piazza, ma si fa in fretta. E’ anche sbagliato reclamare la conferma delle misure cautelari, perché non ci sono indagini da fare, ma solo da accertare, con tutte le garanzie del caso, se quel Tale è o non è quello che appicca il fuoco ai mezzi delle forze dell’ordine. Se non lo è lo si libera, con le scuse, e se lo è va dritto in carcere. Non è in colpa ed errore il giudice che scarcera, ma quello che non giudica. Davanti agli occhi abbiamo la barbarie di un mondo senza giustizia: sia che scarceri i violenti, sia che pretenda di tenerli al gabbio senza condanna.

I fatti di questi giorni tornano utili anche per riconsiderare un tema, dibattuto in precedenza con la consueta lucidità delle tifoserie: le intercettazioni telefoniche. Era contrario alle intercettazioni chi oggi chiede arresti preventivi. Sulla base di che? Era favorevole chi dispone le scarcerazioni immediate. Perché se lascio i picconi nel baule di una macchina, onde ritrovarli alla bisogna, sono un combattente per la libertà, ma se al telefono parlano gli amministratori di due società allora sì che la collettività corre un rischio elevato. Nel mentre suggerisco ad entrambe gli estremi di farsi curare, ricordo quale era la nostra posizione: a. intercettazioni fatte a cura delle forze che garantiscono la sicurezza collettiva; b. utilizzo quali strumenti d’indagine (dici che lascerai i picconi, sorveglio che tu lo faccia e ti arresto non per averlo detto, ma per averlo fatto); c. esclusione delle telefonate dalle carte processuali, in modo da evitare devastazioni di ciò che è bene resti privato.

Se mettessimo una zona rossa a presidio del buon senso e dell’argomentazione assennata sarebbe più evidente il nesso fra proposte e problemi concreti, come più chiara la dissennatezza delle sparate cui s’abbeverano le opposte propagande.

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