Perché Massimo D’Alema corre a smentire quel che pensa? Perché un leader orgoglioso accetta l’umiliazione di negare un proprio giudizio? Perché altrimenti lo massacrano. Perché l’avversione di D’Alema al giustizialismo ha una radice tutta politica, quindi pericolosa. Perché si trova esposto al ricatto delle inchieste sospese o potenziali, che lo inducono a chinare il capo. Riflettete sulla sorte di questo ex comunista, che per non negare se stesso neanche accetta quell’“ex”, non confondete il giudizio politico con quello morale (quello penale è insussistente, perché D’Alema è lindo e, per quel che conta, lo credo anche personalmente onesto). Qui si trovano molti indizi sul male che affligge, da troppo tempo, l’Italia.
Lasciamo perdere le parole riferite da Ronald Spogli, ambasciatore statunitense a Roma, secondo il quale egli avrebbe definito la magistratura “la più grande minaccia allo Stato italiano”. Ancora una volta Wikileaks rivela quel che già sapevamo. Credo che D’Alema abbia utilizzato esattamente quelle parole, pur non ritenendo del tutto esatto il concetto espresso. Ma la sostanza è chiara: la magistratura è divenuta un contropotere, quindi è fuori dai binari costituzionali. Il resto è fuffa. E non credo che, esprimendosi in quel modo, D’Alema facesse suo un giudizio “berlusconiano”, per due ragioni: a. perché egli lo pensa fin da prima dell’entrata di Silvio Berlusconi in politica; b. perché quel che lo induce alla severità del giudizio e all’asprezza delle parole non sono gli attacchi che riceve, ma l’attacco che il giustizialismo porta al primato della politica. Nel quale D’Alema crede (giustamente) e per il quale non condivise gli entusiasmi verso il manipulitismo, già nel 1992.
La tragedia nasce lì, in un rigurgito di bassezze nazionali. Berlusconi si lanciò all’occupazione del vuoto politico creatosi, dopo che le sue televisioni avevano fatto, per benino, da cassa di risonanza ai forcaioli. La sinistra comunista vide, in quella stagione semifascista, l’occasione per non fare i conti con la propria storia e traghettare sé medesima al governo (senza mai vincere le elezioni). Fu una stagione doppiamente antidemocratica, il che nulla toglie al giudizio storico sulla classe politica cacciata, né a quello penale, sui reati commessi (come su quelli mai commessi, dati per certi e, oramai, incistati nella storia per imbecilli). Berlusconi fu, al tempo stesso, il frutto e l’argine di quella stagione. Per la seconda cosa, credo, conquistandosi un posto, positivo, nei libri di storia. D’Alema ne vide subito i pericoli e ne denunciò l’attentato alla politica, ma poi recitò la parte del cinico e del realista, facendo la figura dell’illuso. Non sarebbe bastato arrestare tutti i democristiani, i socialisti, i liberali e i repubblicani per cancellare i crimini storici del comunismo, compreso quello italiano.
Dopo quel momento la tragedia prese le forme del bipolarismo isterico: ciascuno è garantista con i propri e giustizialista con gli altri. Risultato: la cultura del diritto è finita in minoranza. Berlusoni si fa quindici anni da imputato, senza mai cadere, ma sempre finendo azzoppato. D’Alema si fa quindici anni (un po’ meno, diciamo da quando è stato presidente del Consiglio) da presunto indagato, naturalmente presunto colpevole. Nessuno dei due perderà definitivamente la verginità in tribunale, in compenso l’Italia è violentata quotidianamente. Anche a causa della loro incapacità di mettere a fattor comune quel che comunemente, sebbene per ragioni diverse, hanno maturato.
Berlusconi è accusato di pensare solo a sé stesso. Qualche pezza d’appoggio c’è. E D’Alema, a chi e a cosa sta pensando? Smentisce perché, appunto, pensa a sé. Nel nostro sistema nessuno raggiunge mai la pace dei sensi politici e si esce di scena solo mortis causa. Se così non fosse, se D’Alema avesse idea di potere giocare un ruolo diverso dall’eletto da qualche parte, già da tempo avrebbe messo mano alla battaglia per la riforma costituzionale. E non dica, per carità, che lui ci provò ma Berlusconi lo fermò, perché c’è un limite alla storia raccontata con i fumetti: la bicamerale da lui presieduta pospose la discussione degli emendamenti alla “bozza Boato”, che comprendevano la separazione delle carriere. Il solo che ne parlava con convinzione era Marco Boato, poi giubilato, gli altri ne avevano paura e, al tempo stesso, preferirono non disarmare quel che era puntato contro l’avversario. Pertanto: la colpa politica di quelli della prima Repubblica fu non comprendere le conseguenze della fine della guerra fredda, la colpa politica di quelli della seconda il non essere stati capaci di cauterizzare la piaga giustizialista.
La differenza sta nel fatto che i secondi non sono ancora seppelliti. Provino a non rendere inutile la loro sopravvivenza, in questa legislatura o nella prossima, tanto il problema non si risolverà da solo.