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Le baby prostitute piacciono

Le baby prostitute piacciono. L’idea che ragazzine di 15-16 anni si vendano intriga. Non sto parlando dei loro clienti, che, in quanto tali, sono la dimostrazione che quel genere di offerta può contare su una significativa domanda. Sto parlando del mondo dell’informazione. E parlo anche delle baby in questione. Articoli e servizi televisivi escono in continuazione, con la scusa della denuncia e dello scandalo, ma, in realtà, usando gli argomenti dell’istigazione e del compiacimento.

Per affrontare il tema dobbiamo accantonare ogni moralismo. Il mercato della prostituzione è sempre esistito e sempre esisterà. Regolarlo e regolarizzarlo sarebbe saggio, non solo perché potrebbe derivarne un gettito fiscale, offrendo in contropartita protezioni sociali (non quelle dei papponi), ma perché si tratta di un mercato nel quale può ben esistere, ed esiste, la libera scelta. Da una parte e dall’altra. Scelta che non danneggia terzi. Come in tutti i mercati in cui si regola la libertà se ne proibisce la coartazione, quindi si punisce comunque la riduzione in schiavitù. Resa più facile dalla clandestinità. Ma, appunto, per ragionare, si devono accantonare i moralismi: l’idea che ci si rovini al casinò è disdicevole, ma non per questo vanno chiusi.

Torniamo alle baby che si prostituiscono. Sotto la maggiore età resta un reato. Ma quel reato piace. Per rendersene conto basterà osservare il modo in cui viene illustrato: fanciulle distese sul letto, con gonnellini essenziali; gambe scoperte e accavallate, inguantate in calze a rete; spacchi vertiginosi; alcove sfatte; scarpe che cadono, dopo aver ciondolato ai bordi di un sofà, e così via. Tutte immagini che, naturalmente, non si riferiscono ai fatti specifici che si commentano. Tutte foto realizzate con modelle e in posa. A leggere gli articoli e a seguire l’audio si colgono le parole della condanna, ma il messaggio d’insieme è di propaganda. Più che a mettere in guardia i genitori serve a sollecitare il desiderio dei clienti. Cui si fornisce anche un alibi “culturale”, continuando a chiamare “Lolita” la giovane prostituta.

Quel modo di raccontare le cose è accattivante anche sul lato dell’offerta, fra le giovani potenzialmente candidate: si intervistano le protagoniste e quelle ti raccontano che durante le sessioni bastava pensare ad altro, mentre con i proventi si possono comprare vestiti firmati, gadget alla moda, permettersi lussi e sfizi. Ecco cosa hanno detto due minorenni liguri, una volta intervenute le forze dell’ordine, avvertite dalla denuncia di un cliente, che giunto sul luogo dell’appuntamento ha capito di avere a che fare con due post-bambine: “Abbiamo letto sui giornali di quelle ragazzine di Roma che si prostituivano. E che guadagnavano 5-600 euro al giorno. Mitico, ci siamo dette. E’ così è cominciato tutto”. Non è necessario aggiungere altro.

A questo punto scatta la molla autoassolutoria: per forza che capitano queste cose, perché quello è l’esempio che viene dall’alto e dalla televisione, ove tutti sono disposti a tutto pur di diventare idoli. C’è del vero, ma è troppo comodo. Giriamo la frittata: quello è lo spettacolo che va per la maggiore perché quelli sono i gusti e gli istinti del pubblico. Un lato non esclude l’altro. Anzi, vanno assieme. Il fatto è che si è imboccata la strada della deresponsabilizzazione individuale, con la scusa che tutte le colpe e tutti i vizi sono collettivi, della società, del sistema. Così procedendo abbiamo posposto il valore delle scelte personali e anteposto quello del riconoscimento da parte del pubblico. Abbiamo ammazzato il mito di Superman: l’eroe che agisce per il bene, ma resta anonimo. L’importante è non essere anonimi, e chi se ne frega del bene. Anche se la fuga dall’anonimato corre verso la più anonima delle pozze, quella in cui ci sono i vestiti firmati e i marchi che fanno status.

Quelle ragazze sono figlie di madri che pretendono di non essere madri, ma eterne giovini in costante attività esibizionistica. Di madri che non si vestono da madri, ma da militi del rimorchio. E sono figlie di padri che non sono padri, la cui assenza fisica è il coronamento dell’assenza educativa: non proibiscono, non s’impongono, non prendono il peso di avere magari torto, ma pur sempre con autorità. Di padri che si vestono da giulivi fancazzisti: colori, foulard vaporosi, magari un po’ di cremina attorno agli occhi. Sono figlie nostre. Non sono solo loro a essere baby, è che vivono in un ambiente di minorenni invecchiati senza mai essere diventati grandi. Di ipocriti che fingono di scandalizzarsi e intanto guardano la coscia o contano gli incassi. “A mia madre avevo detto che spacciavo droga”, e quella aveva suggerito: sta attenta. Non si preoccupi, signora, lo spaccio è ormai depenalizzato.

Nessun moralismo. Non serve. Dico solo che se non si è neanche capaci di riconoscere il modo in cui diciamo e descriviamo le cose, individuandone il senso, è segno che la deresponsabilizzazione è sfociata nell’irresponsabilità.

Pubblicato da Libero

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