Politica

Leggendo i dati

Le elezioni amministrative di novembre (così come le suppletive de Mugello) sono state importanti ed istruttive. E’ un vero peccato che vengano liquidate con commenti colpevolmente superficiali.

Ha vinto il centro sinistra ed ha perso il centro destra. Questo è sicuro, ma è poco. Da questa constatazione, apparentemente evidente, rimane fuori, ad esempio, la sconfitta del pds e di D’Alema. La superficialità, inoltre, induce a non cogliere il nesso che deve esserci fra quei risultati e la direzione maggioritaria e presidenzialista che ha preso il processo di riforma costituzionale. Vale la pena, quindi, di riflettere con maggiore attenzione.

La sconfitta del Polo era una sconfitta annunciata, non per questo meno dura, ma, comunque, non certo un fatto inaspettato. Di converso, anche la vittoria dell’Ulivo era annunciata, eppure sarebbe stato difficile anticiparne le caratteristiche. Ha vinto la figura del sindaco, ed ha vinto anche grazie a liste d’appoggio che hanno sfarinato internamente l’Ulivo ed hanno suonato un campanello d’allarme per il pds.

Difatti, con tutto il possibile rispetto per i principini ed i salottisti riuniti in partito non partito, i molti voti raccolti, a Roma, da una lista per Rutelli, così come dall’altra lista, quella dei verdi, che recava nel simbolo il riferimento a Rutelli, stanno a dimostrare due cose importantissime : a) che la figura del candidato a sindaco ha un peso enorme; b) che la coalizione vince grazie alla capacità di raccogliere voti antipartito, voti, cioè, antagonisti sia con il pds che con il lato destro dell’Ulivo. Questo fatto va accompagnato, nel caso di Roma, ad altri due elementi : 1) D’Alema non raccoglie un successo di voti d’opinione, già drenati da altre liste dell’Ulivo; 2) nella lista del pds viene eletto chi ha i voti delle sezioni del vecchio pci, gli altri restano fuori.

Si tratta di quattro punti di fondamentale importanza, e che solo un propagandismo dissennato può portare a sottovalutare. E la cosa non riguarda solo Roma, ma tutte le grandi città. A Catania, sempre per rafforzare l’esempio, la lista per Bianco vale più del doppio del primo partito strutturato e nazionale.

Al tempo stesso, l’operazione Di Pietro, al Mugello, si rivela di grande suggestione elettorale, ma di enorme rischio ed instabilità politica. L’ex magistrato porta voti, ma porta anche scompiglio e crisi d’identità. E non poteva essere diversamente, anche tenuto presente il fatto che il collegio più a sinistra d’Italia ha eletto il senatore più di destra.

Tutti questi, per D’Alema, sono sintomi terrificanti, che egli ha cercato di contrastare e dirigere promuovendo le condizioni per giungere alle elezioni anticipate. Come è noto, D’Alema ha perso quella partita : il presidente della Repubblica, complice la volontà del centro cattolico e la dabbenaggine autolesionista del governo francese, gli ha bloccato la strada. Eppure, ancora adesso, è sempre quella la direzione nella quale è ragionevole che D’Alema si muoverà : promuovere le elezioni anticipate per porre un freno ai fenomeni disgregativi.

Che tutto questo venga commentato dicendo : il Polo ha perso, è, appunto, quanto meno riduttivo. Al Polo, semmai, si pone oggi un serissimo problema politico. Fu il Polo a porre al centro del giuoco politico i temi del bipolarismo e del presidenzialismo. Edulcorati e sbocconcellati, questi temi si ritrovano nei lavori conclusivi della bicamerale. Nessun ripensamento?

Non insegna nulla il trionfo di Di Pietro? E non dice nulla il fatto che a Napoli venga plebiscitato un ex funzionario comunista, esponente della neolitica corrente operaista? Nulla da dire sul fatto che a Palermo continui a vincere un personaggio inquietante come Orlando? Questa è, esattamente, la deriva sudamericana del presidenzialismo. Nulla di più lontano dalla tradizione istituzionale europea, o, in generale, delle grandi democrazie.

Intendiamoci, molti giganti del pensiero democratico (e, nei nostri cuori, primo fra tutti Randolfo Pacciardi) ci hanno insegnato che proporre l’identità fra presidenzialismo e deriva plebiscitaria, o fra presidenzialismo ed autoritarismo è roba da analfabeti. Ma tali identità sono negate alla radice dagli equilibri istituzionali, quindi dai pesi e contrappesi, che caratterizzano le democrazie presidenziali. Il lavoro della bicamerale, invece, non sembra molto attento a questo capitolo, ed è, quindi, assai poco rassicurante rispetto ai risultati reali.

In assenza di forti strutture istituzionali, nella storia italiana, è toccato ai partiti politici esercitare la funzione di spinta e moderazione, di promozione e mediazione. Il che ha portato non pochi guasti, ma ha anche avuto non pochi pregi. Ebbene, come abbiamo visto, sono proprio i partiti politici ad essere in uno stato di grande debolezza, ridotti a subire le spinte disgregatrici. Il partito dei sindaci, del resto, non ha altro collante che non la coalizione dei diversi per togliere spazi di manovra (ed elettorato) ai partiti nazionali, prima, ed al governo centrale, poi. I sindaci italiani non sono parenti dei sindaci francesi, tradizionalmente incarichi elettivi di passaggio, e formativi, per mirare a ruoli nazionali. Lì si vive una preparazione amministrativa, qui meramente elettorale.

Il presidenzialismo che stiamo percorrendo, insomma, è sempre più all’italiana, sempre più distante dalle linee guida della tradizione occidentale e sempre più vicino alle avventure colorite, se non rischiose.

Scrivere queste cose su un foglio dichiaratamente, tradizionalmente e nobilmente presidenzialista, può sembrare provocatorio. Ma a me pare che sia proprio la migliore scuola presidenzialista ad avere le carte in regola per additare gli errori che, in questo campo, si compiono.

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