Politica

Lezione inglese

Altro che matrimonio reale, buono, forse, per i turisti, sono le elezioni locali e il referendum sul sistema elettorale la vera attrattiva. Non c’è motivo d’invidiare la monarchia, che sopravvive grazie alla totale inutilità, ma la nettezza dei voti sì, quella è un buon esempio. La politica nostrana farebbe bene a studiare la lezione inglese, ma anche i cittadini farebbero bene ad osservare quel che esce da quelle urne, perché in una democrazia funzionante ciascuno si regola secondo le proprie convenienze, o valutando la ricetta più utile alla collettività, senza troppo concedere alle tifoserie e alle appartenenze ideologiche. I liberaldemocratici di Nick Clegg (che mi stanno simpatici) hanno preso uno sganassone indimenticabile, proprio perché hanno badato più a se stessi che all’interesse generale, hanno dedicato più attenzione alla sorte del loro partito che a quella degli elettori. Se si applicasse lo stesso metro, dalle nostre parti, non basterebbero i cerotti e si moltiplicherebbero i ricorsi alla chirurgia facciale.

Per comprendere quel che è successo occorre premettere che l’attuale governo inglese è il primo, dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, ad essere di coalizione, formato da due partiti: quello conservatore (Tory, guidato dal premier, David Cameron) e quello liberaldemocratico (LibDem). E occorre sapere che tutti i precedenti governi hanno potuto godere d’una solida base parlamentare anche quando non avevano la maggioranza dei voti: sia Margaret Thatcher che Tony Blair, ad esempio, hanno governato raccogliendo meno di un terzo dei voti. Per converso, i liberaldemocratici raccoglievano percentuali di voti con cui, in Italia, avrebbero potuto aspirare a ministeri importanti, mentre in Inghilterra restavano fuori dal Parlamento. Tutto ciò a causa del sistema elettorale uninominale a turno unico: first past the post, chi prende più voti, non importa quanti, è eletto. Con quel sistema, oltre tutto, i partiti sono padroni dei seggi, sicché basta spostare i rompiscatole per farli fuori, ma non possono candidare dei brocchi insipidi, perché verrebbero battuti. Valutate la differenza rispetto al nostro costume attuale.

L’anno scorso gli elettori hanno bocciato i laburisti di Gordon Brown, ma il sommarsi dei collegi uninominali, per la prima volta, non ha dato la maggioranza ai conservatori. Da qui l’esigenza della coalizione. Clegg era l’astro nascente, il più bravo in televisione, la sintesi più accattivante fra il blairismo possibile e la necessità di cambiare musica. Raccolse molti più voti che in passato e giunse a divenire vice premier. Per appoggiare i conservatori pose una sola condizione, divenuta il cappio che l’ha impiccato: cambiare il sistema elettorale. La ottenne.

Da allora ha deglutito di tutto, compresi tagli alla spesa pubblica contro i quali si era battuto, pur di arrivare al giorno fatidico, in cui gli inglesi avrebbero cambiato uno dei loro prodotti migliori: l’uninominale secco. Ai LibDem piaceva il proporzionale, qualcosa di simile a quello che avevamo noi. Sono giunti ad un compromesso, che anche dalle nostre parti è stato più volte tirato in ballo: il sistema australiano. Solo per spiegarlo mi servirebbe una pagina. In sintesi: i partiti presentano le liste e gli elettori esprimono due preferenze, se nessuno prende la maggioranza assoluta si cominciano a ripartire  i voti degli ultimi, fino a quando un candidato supera il 50%. Non ci avete capito niente? Appunto, neanche gli inglesi, che non solo hanno mandato Clegg a farsi benedire, bocciando il referendum, ma lo hanno conciato per le feste anche nelle elezioni locali. L’astro nascente è, ora, una stella cadente (a 45 anni).

La lezione è questa: le elezioni si vincono raccontando agli elettori cosa s’intende fare, parlando di economia, lavoro, scuola, giustizia e così via; poi, se si vince, ci si mette al lavoro e se si perde si cambiano le proposte, perché è la politica che deve cambiare, non gli elettori; quindi ci si ripresenta al popolo, rendendo conto delle cose fatte e delle nuove idee. Quando si ottiene la maggioranza assoluta degli eletti si è totalmente responsabili del risultato, sistemi elettorali compresi. Ma se si vuole cambiarli per avere più eletti, ragionando in politichese, senza raccordare tale pretesa con gli interessi reali e immediati, per giunta espropriando gli elettori dello strumento con cui decidere chi governa, trasferendo tale diritto ai partiti, la risposta è quella giunta: non se ne parla neanche.

E pensare che, in Italia, quando scrivevamo che occorre avere un sistema uninominale e maggioritario, senza il trucco del premio di maggioranza, nonché coerente con una diversa architettura costituzionale, ci siamo sentiti dire: anche gli inglesi, adesso, vogliono il proporzionale. S’è visto.

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