Gli immigrati, gli extracomunitari, in Italia, sono pochi. Siamo fra i Paesi, in Europa, che ne ospitano meno, ne occupiamo meno della media, ne abbiamo pochissimi nelle nostre scuole. Eppure, ripetutamente, sentiamo parlare di “allarme immigrazione”, zone rilevanti avvertono i problemi di una minore sicurezza, in qualche caso, addirittura, si scorge il “dominio” di qualche diversa etnia.
Come è possibile? Si mescolano, nel tema dell’immigrazione, questioni diverse, e molti problemi si complicano perché affrontati più con i sentimenti (buoni o cattivi) che con la razionalità.
Cominciamo con il dire che l’immigrazione è una risorsa, ed aggiungiamo subito che in molte zone l’Italia è un modello da imitare, nel senso che il tessuto locale, nato dall’intrecciarsi di un localismo accogliente e di un’economia fatta di tanti soggetti che interagiscono fra di loro, ha reagito benissimo, facendo del lavoro lo strumento principe dell’integrazione. I lavoratori stranieri non “rubano” il lavoro a nessuno, ed anzi hanno contribuito a far crescere mercati e produzioni che, per la loro vitalità, avevano un po’ esaurito le energie autoctone. Di questo parliamo poco, in omaggio al fatto che le cose buone non fanno notizia, ma c’è di che essere orgogliosi di un Paese dove un lavoratore è un lavoratore, ed il resto conta poco, dove le battute sul differente colore della pelle, o sulle differenti abitudini, anche alimentari, arricchiscono i momenti di socialità, anziché essere l’orrido riflesso di un pregiudizio.
Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia, sulla quale leggiamo i guasti che si creano innestando l’immigrazione più recente sul tronco di un mercato e di un vivere civile che spesso fa dell’elusione o dell’inosservanza della legge un vanto. Qui si deve stare molto attenti.
La grande parte dei migranti sono spinti non dal desiderio di viaggiare o di vivere avventure, ma dal bisogno di lasciare una terra che non assicura un avvenire ai loro figli, e cercano di approdare dove vedono ricchezza e benessere. Mettono nel conto di dovere lavorare sodo, e non hanno alcun interesse a programmare qualche anno di delinquenza, e neanche genericamente d’illegalità. E’ ovvio che la devianza, anche criminale, cresce più rigogliosa nelle fasce del disagio e della povertà. E’ così ovunque. Ma non ci sarebbe motivo di venire in Italia per assaporarne le patrie galere. Il guaio è che noi abbiamo dimostrato di non sapere trattare in modo efficiente la questione, abbiamo portato troppa gente a vivere in modo irregolare, abbiamo troppe volte risolto la faccenda con sanatorie che davano per buona la situazione di fatto, abbiamo troppe volte dato prova di non perseguire in modo convincente la delinquenza, ed abbiamo finito con l’importare delinquenti, o, peggio ancora, ad essere la meta preferita di quella criminalità organizzata che commercia in carne d’immigrazione. E questo è un problema serio.
Abbiamo un mercato del lavoro troppo rigido ed irragionevolmente costoso. Non nel senso che i nostri lavoratori guadagnano troppo, ma perché la distanza fra quel che costano al datore di lavoro e quel che effettivamente intascano è troppa, e nel mezzo c’è ricchezza che va a depositarsi nell’improduttività della spesa previdenziale e pensionistica. Avevamo già avviato al nostro interno una vasta pratica d’evasione fiscale e contributiva, e sono decenni che continuiamo a contabilizzare anche il mercato “nero”, o più soavemente detto “economia sommersa”, facendo finta di non vedere che la sua sola esistenza, ed in quelle proporzioni, testimoniava del fallimento dello Stato di diritto. Ma le cose si complicano, quando entra in scena l’immigrazione.
Basterà porre mente al mercato delle collaboratrici domestiche. Richiestissime, scarseggianti, spesso contese fra questa e quella famiglia, ma in buona parte del tutto irregolari. Irregolari perché presenti e lavoranti in Italia senza permesso di soggiorno, e senza che la situazione si possa sanare se non perdendo mesi e rinunciando al lavoro immediato (o aspettando, appunto, una sanatoria generale). Irregolari perché le famiglie vengono considerate datori di lavoro, pertanto tenute a versamenti contributivi che fanno lievitare enormemente i costi. Il tutto in un mercato in cui la famiglia ha bisogno di aiuto, qui ed ora, il lavoratore vuole lavorare subito ed è interessato ad accumulare più denaro possibile, per spedirlo nel Paese d’origine e, magari, preparare il proprio ritorno, quindi constatandosi una reciproca convenienza alla violazione della legge. Ed è così che un esercito di ragazze è da considerarsi irregolare, o clandestino, pur svolgendo mansioni d’assoluta fiducia (hanno le chiavi di casa, restano a far compagnia ai nostri figli). Si fa presto a dire: si deve combattere l’evasione. Si fa presto, ma non si dice nulla di sensato, visto che si dovrebbero sfidare a duello le famiglie italiane.
Sono le regole del mercato del lavoro a dovere essere cambiate, offrendo una regolarizzazione ai lavoratori, italiani (ci sono anche loro) e stranieri, senza che questo significhi un impoverimento di loro e di chi dà loro lavoro. Negli Stati Uniti, ad esempio, un ristoratore arruola un cameriere e lo paga poche decine di dollari, puntando il lavoratore alle mance dei clienti, e senza che nessuno debba versare oboli obbligatori a questa o quella cassa. Questo non favorisce il precariato, bensì il lavoro ed i guadagni, con i quali organizzare una vita che aspiri a qualche cosa di più che non a fare il cameriere (difatti è difficile trovare camerieri maturi, per non dire anziani, come ce ne sono da noi, sono quasi tutti ragazzi).
E se il settore domestico crea irregolarità dove non ci dovrebbe essere, in altri casi le cose vanno peggio. Noi abbiamo una giustizia scassata e d’esasperante inefficienza, con questo strumento rotto pretendiamo di combattere contro devianze nuove, risultando ridicoli. E’ ridicolo, ad esempio, arrestare un clandestino, tenerlo qualche tempo in galera, dirgli che se ne deve andare e, in attesa del processo, rilasciarlo libero. Dove credete che finisca? Sparisce, e magari riemerge delinquente in qualche altro posto, in qualche altro processo. L’avere dato ai criminali questa sensazione di sostanziale impunità ha finito con il richiamare i loro colleghi. Quindi noi abbiamo pochi immigrati, ma ne abbiamo troppi che violano la legge. E non basta: molti di questi disperati finiscono nelle mani di malavitosi che ne organizzano gli sbarchi in Italia (quando non li lanciano in mare) chiedendo loro di essere ripagati in denaro contante, ed in poco tempo. Dove volete che lo trovino, quel denaro? Ecco, allora, che il non essere stati capaci di reprimere quella delinquenza ci porta ad ospitare, sebbene in condizioni di clandestinità, persone costrette a delinquere per non farsi scannare dai creditori.
La repressione del crimine, in questo caso come sempre, non solo non è “contro” i poveri, ma è a loro favore. Purtoppo noi mescoliamo inefficienza, quindi ingiustizia, con pietismo, e ne ricaviamo una miscela insopportabile. Il tutto, sia chiaro, alla luce del sole. Cosa sono i chilometri quadrati ricoperti di mercanzia varia, offerta al pubblico con l’unica prudenza di spostarsi di due metri quando passa la polizia? Com’è possibile che questo enorme mercato abbia fisicamente circondato il governo ed il Parlamento? Come è possibile che sia presente anche davanti e dentro il tribunale? A Roma, davanti al tribunale penale, puoi comperare comodamente una borsetta di (falsa) marca, dopo avere contrattato con un clandestino, davanti ad un esercizio commerciale abusivo, il tutto nel mentre i magistrati ti passano accanto e sbirciano per vedere se c’è qualcosa di loro interesse. Con ogni probabilità sono essi stessi clienti di chi domani processerano (ma con comodo, impiegandoci anni).
Questa furbizia da vicoli, questa collettiva arte d’arrangiarsi, porta male, molto male quando la si applica a fenomenologie nuove, più organizzate, meno ruspanti del contrabbando spicciolo.
Poi c’è la questione culturale, nella quale comprendo anche l’aspetto religioso. Chi mette piede in Italia ha diritto a pregare la divinità nella quale crede, a vivere il proprio culto, ad avere i luoghi che considera sacri. Non c’è dubbio e non si discute. Ma non si discute nemmeno che il rispetto della legge italiana non ammette deroghe, di nessun tipo. Ciascuno preghi quando vuole (compatibilmente con il lavoro che svolge, perché anche il più cattolico dei pompieri corre a sirene spiegate di domenica), ma chi pensa di infibulare una bambina lo metto in galera, lo condanno entro una settimana e ce lo tengo quel che è giusto. E se dice: ma è l’usanza della mia tribù, gli rispondo: tornaci, nella tua tribù, se passo da quelle parti cerco di spiegarvi che siete degli incivili, ma se passi dalle mie ti proibisco simili turpitudini.
Il velo islamico per le donne a me non piace, non è un precetto coranico e, comunque, sa di pessimo sessismo. Ma mi piace ancora meno che da noi si pretenda abbia un valore superiore a quello che ha in Iran. Se lo vogliono mettere lo mettano, ma alla polizia, alla frontiera, agli esami universitari, al portiere dell’albergo, fanno vedere il volto. Da noi si chiama identificazione, è una cosa giusta, e chi non crede di doverla subire può anche andarsene.
Quando entro negli Stati Uniti controllano se la mia impronta digitale corrisponde a quella di chi ha usato lo stesso passaporto qualche tempo prima. Se rifiuto di mettere il dito nella macchinetta mi fanno fare dietro front e mi rimettono sul primo aereo. Hanno ragione, ed io lascio l’impronta (e mi faccio fotografare) in assoluta serenità. E’ giusto.
L’immigrazione è ricchezza, il nostro è e deve restare un Paese aperto. Perché ciò avvenga occorre che si abbiano ben chiare le regole dell’accoglienza, senza cadere nella melassosa ipocrisia buonista, capace solo di far germogliare la malapianta del razzismo.