Politica

L’incasso e lo scasso

Per misurare il grado di superficialità e l’assenza di consapevolezza circolanti basterà osservare la scena in corso: il decreto non è ancora stato approvato, l’ulteriore prelievo di quattrini dalle tasche degli italiani non è ancora iniziato, e già è partita la processione dei senza dicastero, che reclamano un governo diverso. Naturalmente più bello e più capace. Che non ci vuole neanche molto, viste le prove ardite offerte da questo. Ma colpisce la totale assenza di ragionamento politico, l’oblio dell’interesse nazionale. Che non è quello di tenersi il governo in carica, ma di non buttare via i soldi che ancora si devono raccogliere.

In un Paese assennato si procederebbe in modo diverso. Nel momento stesso in cui s’approva il decreto, a sua volta frutto delle istruzioni impartite dalla Banca centrale europea, e tutelate dal ruolo vigile del Quirinale, quindi frutto di una scelta non libera, il governo (necessariamente quello attuale) prende carta e penna e scrive ai colleghi europei: quel che è stato chiesto lo abbiamo fatto, al prossimo giro di speculazione scordatevi che gli italiani siano nuovamente disposti a pagare, sapete bene che il difetto strutturale e nell’euro, che l’Italia sarà pure un Paese che vive al di sopra delle proprie possibilità, ma né più né meno di voi, quindi, cari colleghi, vediamoci subito e proviamo ad affrontare il nodo del problema, il trattato di Maastricht. In un Paese ragionevole le forze politiche che non compongono il governo, pur ribadendo il loro desiderio di mandarlo a casa e prenderne il posto (possibilmente dopo essere state votate), converrebbero formalmente con una simile iniziativa, perché è chiaro che le conseguenze della speculazione sui titoli del debito pubblico sono ingovernabili per chiunque.

Forti di tale unità, che non sarebbe affatto un’accozzaglia politica, ma il minimo comun denominatore dell’interesse nazionale, gli italiani potrebbero rivolgersi agli altri europei avendo solide argomentazioni da spendere. Come quella per cui ove loro non si svenino per obbedire agli amministratori dell’euro la prima conseguenza consisterebbe nel vedere saltare le banche tedesche e francesi. Il che non induce affatto a volere il peggio, ma dovrebbe sollecitare tutti a non credere che i soldi dei propri cittadini devono essere tutelati, mentre quelli degli altri possono essere bruciati. Negli ultimi anni non abbiamo fatto nulla di male. Noi italiani rimproveriamo ai nostri governi di non avere fatto abbastanza bene, ma in termini di disciplina di bilancio non abbiamo colpe gravi. Il problema è europeo. Va affrontato in quella sede.

Pensare, invece, nel mentre s’approva il decreto, di cambiare il governo equivale a volere approfittare della crisi per regolare i conti interni. Che è, appunto, una dimostrazione d’incoscienza. La corsa ad accreditarsi come migliori interpreti della sottrazione di sovranità non vede in pista gli animi nobili e i profondi pensatori, ma le mezze seghe della superbia senza consenso popolare.

In questa legislatura non ci sono maggioranze alternative a quella berlusconicentrica, che sarebbe sostituita da un coagulo frutto di un crollo politico. Un Paese la cui sovranità economica è minacciata da imposizioni che vengono da fuori e che sceglie di licenziare la politica, ha già firmato la resa. L’alternativa sono le elezioni, ma indirle adesso significa farsi mettere sul conto la crisi dell’euro. Anche i greci ci farebbero la morale, come già gli spagnoli. Le urne ci sarebbero volute. Ora è tardi. Riparliamone quando sarà possibile chiudere la partita nel più breve tempo possibile.

E ciò sia detto non certo per smania di difendere il governo in carica, giacché si tratta di un esercizio cui non ritengo di dedicarmi e, in ogni caso, destinato a sicuro insuccesso, dato che entro il tempo necessario a finire queste poche righe già sarà emerso qualche altro puttanaio. Nel senso non figurato del termine.

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