Politica

L’Iran e l’Europa

Quel che accade in Iran dovrebbe farci riflettere, sia a proposito dei nostri interessi che del ruolo assunto dalla rete di comunicazione, quella che, un po’ genericamente, chiamiamo “Internet”. Partiamo proprio da questa, visto che alcuni recenti episodi, come i comitati a favore degli attentatori mattoidi, hanno spinto il governo italiano a ritenere necessarie maggiori regolamentazioni. E’ una strada sbagliata.

Abbiamo immagini delle proteste, sappiamo che migliaia di giovani si muovono, che i manifestanti non si arrendono davanti a repressioni durissime. Lo sappiamo, in gran parte, grazie ad Internet, al fatto che la rete sfugge al controllo dei dittatori. Quella di George Orwell, con il suo 1984, era un’utopia negativa, l’incubo del “grande fratello” che, con il suo occhio elettronico, ruba la vita di ciascuno. Quella di Internet è una realtà positiva, che va saputa usare, come tutte le cose, ma che aiuta i nostri occhi a girare per il mondo, non necessariamente accompagnati. Ci andrei piano, quindi, ad imporre limitazioni. Tanto più che le democrazie sono forti e, come il corpo umano, reagiscono alle malattie, creando anticorpi. Ci sono, su Facebook, i sostenitori di Tartaglia? Buon per loro, vuol dire che per un esaltato ci sono non so quanti scemi. Le dittature, invece, sono rigide, anelastiche, non imparano, sanno solo reagire con rabbia e violenza, avvitando la propria bara. Telefoni cellulari e internet, in Iran, sono strumenti con cui gli inermi torturano i dittatori, con la nostra compiaciuta solidarietà.

Quella iraniana, venendo al tema generale, è una teocrazia già morta. Il regime è già finito. Purtroppo capita, e non è la prima volta, che la storia si prenda troppo tempo, prima di girare pagina. Il tempo intermedio è quello peggiore. Gli oscurantisti inturbantati, i bestemmiatori del loro stesso dio, hanno terminato i loro giorni, e lo dimostra il fatto che la folla non se la prende più solo con quel fantoccio che finge d’essere pazzo, Ahmadinejad, ma punta direttamente alla testa di Ali Khamenei, che pretende d’essere la “guida suprema”, in realtà è l’uomo che per ultimo siederà sul trono intronato di Khomeini. Il successore, che pure ci sarà, dovrà dare ascolto alla realtà, rassegnandosi all’idea che il medio evo è alle spalle.

Noi, però, abbiamo dei problemi. In Iran, come altrove, occorre che l’occidente faccia i conti con i propri fantasmi. Sappiamo di dovere fermare la corsa iraniana alla tecnologia nucleare, dato che l’alternativa sarebbe l’attacco armato e la distruzione, ma sappiamo anche che molti interessi economici legano aziende occidentali a quel mondo. Sappiamo di volere stare dalla parte dei manifestanti, ma, com’è accaduto al presidente statunitense, siamo fortemente tentati dal fare accordi con chi li massacra. Sappiamo che il fondamentalismo religioso è nemico della civiltà, ma ci piace troppo pensare che la ricetta alternativa, e risolutiva, sia quella della democrazia. Non è così.

Kemal Atatürk riuscì a laicizzare la Turchia, ma lo fece con un colpo di stato, cui successe un regime autoritario, basato su un partito unico. Fece bene, e fece del bene alla Turchia, ma, insomma, l’introduzione del suffragio universale non basta a sostenere che fu un democratico. La Turchia d’oggi, figlia di quel padre, è una democrazia, con il risultato che il partito islamico prende più voti degli altri. I pilastri kemalisti resistono, ma non si può dire che scoppino di salute. L’esempio turco serve a dimostrare che non si può pensare di cacciare i talebani e poi fondare la democrazia in Afghanistan, o d’impiccare Saddam e poi far nascere la democrazia in Iraq, per giunta senza neanche l’ombra di un Atatürk. E quando l’Iran si sarà liberato della teocrazia, resterà comunque un Paese abitato da una marea sciita, che si ricongiungerà con gli sciiti iracheni, cui solo la dittatura saddamita poté imporre di far la guerra agli iraniani.

Lo sciismo, come il wahhabismo (il ceppo che ha partorito Al Quaeda), sono problemi seri per la grande maggioranza, sunnita, del mondo islamico. Solo che ce li smazziamo noi occidentali, chiamati a guerre (giuste) al termine delle quali immaginiamo democrazie (impossibili). I russi, massacratisi in Afghanistan, se ne lavano le mani e, quando si tratta di faccende interne, come la Cecenia, procedono alla repressione. I cinesi, osservano compiaciuti e si espandono in Africa. Gli indiani, rendono impossibili (e non a torto) accordi troppo cedevoli con i pachistani. I ricchi arabi non si sa se sono più contenti nel vedere i loro correligionari ammazzati da noi, o noi ammazzati dagli altri islamici. Non ci vuol molto a capire che si deve cambiare gioco.

Può darsi che, nel corso del 2010, Obama sappia dimostrare che il Nobel per la pace non è stata solo la scelta alticcia di accademici superflui. E’ un peccato, anzi, no, è un delitto che, in un tale scenario, l’Europa si sia dotata di un presidente e di un ministro degli esteri di cui non ricordo il nome, che per scriverli dovrei fare una ricerca e che, al momento, non mi sembrano degni della fatica. So che lei è una baronessa inglese, e se penso che al loro posto poteva esserci Tony Blair faccio schizzare alle stelle i miei istinti repubblicani. L’Europa non esiste, ma i problemi citati sì. Questo, non porta bene.

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