Sabato gli ultimi militari italiani presenti in Iraq rientreranno a casa. Sarà il 2 dicembre. Il governo di centro destra, che ce li aveva spediti con un preciso mandato nell’Onu, ne aveva programmato il rientro entro la fine dell’anno. Il centro sinistra condusse una dura battaglia perché prima non voleva mandarli (preferendo non ascoltare le indicazioni dell’Onu), poi voleva ritirarli subito.
Alla fine la differenza è al massimo di ventotto giorni. Lo sottolineo perché è attorno ad una dato temporale così limitato che si è preteso d’agitare una grande questione di politica estera.
Ora è in corso il vertice Nato a Riga, in Lettonia, quindi in un Paese che era territorio nemico fino al crollo dell’Unione Sovietica. Qui si discute di quel che accade in Afghanistan. Gli attacchi dei talebani si sono incrementati ed il comprensibile desiderio nei Paesi Nato di non moltiplicare le perdite umane nelle proprie fila ha spinto ad intensificare le incursioni aeree. Queste ultime sono certamente efficaci, ma comportano perdite civili. In altre parole, non è possibile pretendere che la missione militare sia una missione pacifica, né chiedere che cessino i bombardamenti se non mettendo nel conto uno spostamento delle truppe di terra e, quindi, un accresciuto rischio per i militari. In tali condizioni i nostri alleati ci chiedono di non limitarci al controllo di Kabul ma di spingere anche i nostri militari sulla linea del fuoco.
Nel mentre crescono i rischi in Afghanistan resta il pericolo in Libano, dove i nostri militari sono schierati fra i miliziani di Hezbollah, che continuano ad essere armati e sostenuti da iraniani e siriani, ed Israele, che continua ad essere bersaglio di attacchi missilistici e che non resterà certo a guardare. La situazione interna libanese non è certo rassicurante, perché serve a poco ripetere come una litania l’appoggio al governo regolare, dacché quello stesso governo è oggetto di attacchi terroristici che ne uccidono i ministri.
La politica estera, insomma, reclama d’essere governata in accordo con i nostri alleati e rendendo visibili i rischi che si corrono. Il contrario, ovvero la loro sottovalutazione e l’impressione che noi si possa giocare autonomamente su una scacchiera esplosiva, non prelude a nulla di buono. Fin qui ci siamo limitati, di fatto, a mostrarci coerenti con gli impegni presi senza però esporre i militari a rischi eccessivi. Non sta scritto da nessuna parte che ci consentano di continuare con questa condotta, mentre in Libano restiamo ostaggio nelle mani di chi soffia sul fuoco della guerra. Ove la politica avesse senso di responsabilità questo dovrebbe essere il tema di un serio confronto parlamentare, che sia lo specchio di una diffusa consapevolezza nazionale. Lo spettacolo di due coalizioni che si fronteggiano nelle piazze, per poi differenziarsi al massimo per ventotto giorni in più od in meno di permanenza in Iraq, va nella direzione opposta.