Politica

Lo stallo

Non bastava il rincorrersi delle voci su possibili dimissioni, entrate a far parte delle riflessioni politiche come se l’ipotesi avesse qualche cosa di normale, ieri Giorgio Napolitano ha dovuto incassare un colpo piuttosto duro: sarà costretto a testimoniare nel processo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia. Ha subito detto di non avere difficoltà, cercando di sdrammatizzare, ma i fatti sono puntuti e urticanti: la Corte d’assise di Palermo aveva già ammesso la testimonianza, ma nell’ottobre 2013 (un anno fa!) il presidente della Repubblica aveva mandato una lettera, affermando di non avere alcunché da dire, circa il punto per cui era stato convocato. Tutto gira attorno alla telefonata che Nicola Mancino fece al Quirinale, parlando con lo scomparso Loris D’Ambrosio, e alla lettera che quest’ultimo inviò poi al presidente. Forse quella conversazione non fu proprio tutta dentro i binari della ragionevolezza, ma Napolitano sottolineò che non sapeva nulla di più di quello che gli era stato scritto, non potendo altro aggiungere.

A quel punto l’avvocatura generale dello Stato e alcune parti fecero istanza di revoca di quella testimonianza. Ma non la procura. Il punto delicato è questo: se insisto a sentire un teste (e che teste) che afferma di non avere nulla da dire è perché penso o che non abbia capito la domanda, o da dire ne ha, ma prova a sottrarsi. Ieri la Corte ha stabilito che tale dubbio va chiarito, pertanto Napolitano sarà interrogato e controinterrogato. Sebbene a domicilio, sul Colle. Un colpo doloroso, comunque la si voglia girare. Il che spiega anche che si mollino certe esitazioni del passato, non si faccia appello alle riforme condivise, non ci si preoccupi del consenso della magistratura associata ma si proclami, come Napolitano ha fatto ieri, parlando al Csm, che cambiare la giustizia è urgente. Lo è da molti anni. Troppi.

Non è affatto normale, del resto, che le dimissioni del presidente della Repubblica siano considerate una variabile del gioco politico e rientrino fra gli elementi valutati dagli analisti. Quella scelta spetta solo all’interessato e non è sindacabile. Non sarebbe la prima volta che dal Colle ci si dimette, ma i precedenti sono tutti traumatici. Ne avremmo conferma, anche perché questo Parlamento faticherebbe assai a eleggere il successore.

La missione di Napolitano, così come delineata nelle circostanze che portarono alla sua rielezione, sarebbe conclusa il giorno in cui si fosse tornati alle urne con un nuovo sistema elettorale. Quello in discussione, ammesso che passi, presuppone che sia già stata modificata la Costituzione, cancellando i senatori eletti, ma non il Senato. Perché questo disegno si compia occorre almeno un anno, sicché le elezioni non sono immaginabili prima del 2016. Fino ad allora le dimissioni del Colle non sarebbero il frutto della missione compiuta, ma la constatazione di una missione impossibile.

Dimettersi prima significa restituire la palla a questo Parlamento. Che non solo non seppe giocarla un anno fa, ma non riesce a giocare neanche quella della Corte costituzionale. Nell’aprile del 2013 un accordo fra il Pd e il Pdl (non ancora scisso) era non solo possibile, ma in fase di avanzata costruzione. Gli scrutini effettuati, però, avevano dimostrato che i franchi tiratori non erano una pattuglia, bensì un esercito. Se oggi si ripartisse da quel punto si potrebbe scommettere che gli eserciti sarebbero due: uno a sinistra e uno a destra. Senza neanche il timore di essere rispediti a casa, mancante il potere di scioglimento anticipato. Dal che deriva che quelle ipotetiche dimissioni manderebbero in tilt il sistema istituzionale.

Si dirà: allora non c’era il patto del Nazareno. Attenti a coltivare le leggende fino al punto di crederci. Quel patto nasce come un accordo fra perdenti: Berlusconi perché aveva perso le elezioni e Renzi perché aveva perso le primarie precedenti le elezioni, avendo poi vinto quelle per la segreteria, quando oramai gli avversari erano stati annientati non da lui, ma dalla folle gestione della fase post elettorale (e dalla rielezione di Napolitano). Perché il patto fra perdenti si traduca in un patto vincente occorre che, in maniera dichiarata o meno, diventi un patto di governo. Il che, ad oggi, è negato da entrambe le parti. Eppure non c’è alternativa, giacché se tutto saltasse, se si dovesse andare alle urne in fretta, si potrebbe farlo solo con il sistema esistente, ovvero quello frutto della sentenza della Corte costituzionale: un proporzionale con sbarramento. Ancora una volta: il contrario di quel che gli astanti dicono di volere. Peccato che le chiacchiere son leggerine, comunque meno pesanti dei fatti. Ecco, se Napolitano medita di dimettersi proprio per evitare un simile sbocco, se intende buttarsi sui binari che portano i vagoni politici a scivolare verso le urne, compie una scelta gravida di conseguenze e pericoli. Perché costringe tutti a fermarsi per un tempo lungo, martoriandosi nel nulla.

E il tempo non abbonda proprio per niente. Mario Draghi ha detto: nell’eurozona la crescita è debole, ma non c’è né recessione né deflazione. Siccome noi le abbiamo entrambe (la seconda nascosta, ma neanche tanto), delle due l’una: o siamo fuori dall’eurozona o ci tocca correre come matti per rimetterci al passo. La prima cosa ci consentirebbe di avviare una sanguinosa corrida quirinalizia, al termine della quale seppellire sia il toro che il torero. La seconda non ce lo permette affatto. Ergo: se patto ha da essere che patto sia, ma vero, capace non solo delle riforme istituzionali, ma anche di misure economiche, talché i conti fra le parti politiche si facciano tutti dopo; se patto non è, allora non si faccia finta che ci sia, abbozzando, smozzicando e mediando tutto e niente, perché quando l’esercizio sarà finito il Paese sarà sfinito. Posto che già oggi boccheggia, già s’approssima lo stallo.

Le ipotetiche dimissioni di Napolitano (ora piegato alla testimonianza) rischiano di diventare un alibi per non affrontare questa scelta. La sola che, oggi, consente di far seguire i proclami con delle scelte. Il resto è solo folclore, con o senza cappuccio, di omini che provano a sistemarsi al riparo, prima del temporale.

Pubblicato da Libero

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