Politica

L’uomo del Colle

L’uomo del Colle, Giorgio Napolitano, ha troppo mestiere e troppa esperienza per non accorgersi di quale significato ha assunto la sua condotta. Anche analisti prudenti e quirinalmente sensibili non possono fare a meno di osservare che la scena politica è occupata da due persone: Napolitano e Silvio Berlusconi. Non è affatto normale. Sul Colle più alto dovrebbero porsi una domanda: se questo capita al culmine di una campagna elettorale amministrativa, che cosa succederà all’approssimarsi delle elezioni politiche? Il rischio è di polverizzare la Costituzione.

Se chi è prudente (mi riferisco a Stefano Folli) non può non vedere la supplenza politica, scrivendo che “la voce del Presidente è forte anche perché è flebile quella dei partiti, a cominciare da quella del Pd”, è bene che al Quirinale tengano presente l’esistenza dei forsennati, seguendo i quali si faranno danni irreparabili. Quelli di la Repubblica si affidano ai sondaggi e inneggiano a “quota 90”, riferendosi alla popolarità di Napolitano e incuranti della memoria: era la “quota” che Benito Mussolini voleva per il cambio fra la lira e la sterlina. Mettono in bocca al Presidente un virgolettato: “sento gli italiani con me”. Egli aveva detto una cosa diversa: “sento la responsabilità della fiducia che mi viene rivolta da italiani di tutte le tendenze politiche”. Non mi pare la stessa cosa e, comunque, la nostra Costituzione descrive un Presidente la cui natura e i cui poteri non tengano in alcun conto i sondaggi d’opinione. Come potrebbe, il rappresentante dell’unità nazionale? Se se ne fa un soggetto politico lo si disintegra, e con lui la Costituzione.

Il pericolo è concreto, ma anche imminente. Basta leggere il fondo di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera: non solo parla della “sua nuova, indubbia popolarità”, ma la ritiene frutto del “suo stare, o sforzarsi di stare, ‘da nessuna parte’”. Al netto dell’abbondante conformismo, il professor della Loggia suppone che solo di recente la presidenza della Repubblica abbia dismesso un ruolo meramente notarile. Deve essersi perso la storia da Giovanni Gronchi (1955) in poi. Le cose stanno in modo assai diverso: il ruolo presidenziale è costituzionalmente elastico, potendo cambiare, e di molto, a causa delle persone e delle circostanze, ma è comunque iscritto, come tutto intero il disegno costituzionale, dentro il perimetro di una Repubblica parlamentare ove centrale è il ruolo dei partiti politici e proporzionale la loro rappresentanza. Quel perimetro è stato distrutto fra il 1992 e il 1994, mettendosi in atto un’insanabile contraddizione fra la Costituzione scritta e una realtà che pretende (spesso a torto) d’essere bipolare e maggioritaria. Anche prima d’allora la politica divenne fortemente personalizzata, perché questo è un derivato del modo in cui è cambiata la comunicazione, ma solo a partire dalla nascita della seconda Repubblica (costituzionalmente mai avvenuta) il personalismo s’è accompagnato alla scomparsa dei partiti, ridotti a meri contenitori elettorali, privi di classe dirigente e democrazia interna.

In questa condizione equivale a scherzare col fuoco il sostenere, come fa della Loggia, che Napolitano, come prima di lui Carlo Azelio Ciampi, “ha cominciato a trovare nel patriottismo la sua propria ideologia di riferimento”. L’ideologia è un sistema d’idee e valori che fonda una forza politica, ma quella patriottica, facendo gli scongiuri (visto che stiamo combattendo in Libia) è una mascheratura del vuoto ideale e programmatico, da non confondersi con l’amor di Patria. Se l’internazionalista Napolitano avesse scoperto in età matura quel che della Loggia gli suggerisce, sarebbe come dire che l’Italia e riprecipitata nel suo peggiore passato. E il fatto che ciò sia “popolare” dovrebbe terrorizzare, non rasserenare.

L’uomo del Colle non può ignorare tale contesto e, con il distacco che gli deriva dal non dovere e non potere essere oggetto di contese elettorali, dovrebbe fermare tanti avventati laudatori. Invece fa il contrario, aizzandoli.

E’ vero quel che Napolitano ha detto: in altri Paesi, per questioni assai più limitate, uomini di governo e politici si dimettono. E’ vero. Alla Camera dei Comuni ci sono parlamentari che hanno pagato il loro avere fatto la cresta sui rimborsi spese. Ed è giusto. Da noi lo facevano i parlamentari europei, che prendevano il rimborso degli aerei più costosi e volavano su quelli più convenienti, lucrando la differenza. Lo fece anche Napolitano. Sapete perché, da noi, la cosa non è rilevante? Non perché siamo dei sudici immorali alla nascita, ma perché s’è delegata alla magistratura la tutela della pubblica moralità, confondendo il peccato (non necessariamente in chiave religiosa) con il reato. Mancante il secondo è tutto a posto. Ciò ha generato due turpitudini, eguali e contrarie: da una parte si pretende di considerare colpevole l’accusato (ci cascano anche quelli del centro destra, cui un ottimo giudice costituzionale ha spiegato, con sentenza, che l’obbligo di carcerazione di un innocente è abominevole), politicizzando la giustizia, dall’altra si considerano irrilevanti anche le condanne, perché la giustizia è politicizzata. Un capolavoro. Ha ragione Napolitano, non è normale. Come non lo è che a ricoprire cariche repubblicane ci sia chi è stato responsabile dei rapporti amichevoli e fraterni con le peggiori dittature comuniste della storia. Ci faccia caso: altrove non avviene.

Allora, che si fa? Si continua la guerra per bande ideologiche e ci si spara insulti ogni volta che sorge il sole, o si prende atto che la mai nata seconda Repubblica è defunta, dovendosi scrivere la Costituzione della Terza? Tirare in ballo solo la popolarità, da una parte e dall’altra, equivale a dissolvere ciò che caratterizza le democrazie: il diritto e la sovranità popolare.

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