Politica

Madre della Patria

Mamma mia, quanta ipocrisia. Un’overdose di falsità, attorno al tema di una maternità. Tanto di quelli che la considerano ostativa di una candidatura, quanto degli altri, che recitano la giulebbosa litania del “sarebbe come tutte le altre mamme”. In un sol colpo si rende solare sia il vuoto della politica che la conseguente ignoranza circa le difficoltà vissute dall’essere genitori, in una società colma di bonus e vacante di servizi.

Che i (presunti) suoi alleati utilizzino la gravidanza per sbarrare la strada a Giorgia Meloni, dimostra, se non altro, lo sprezzo del ridicolo e la mancanza di riguardi per il buon senso. Che la gravidanza mal si concili con gli impegni della campagna elettorale, oltre che con quelli successivi ad una eventuale vittoria, lo sostenne Meloni stessa. Rispondendo a un suo sostenitore. Ma questi sono argomenti che si possono usare per sé stessi, non per gli altri. Le verità sono due: a. sia Meloni che Salvini convennero sulla candidatura di Guido Bertolaso (che ha tale consuetudine con i disastri da provocarli parlando); b. la candidatura della leader di Fratelli d’Italia sarebbe servita a lei e ai suoi per avere molta visibilità durante la campagna elettorale, ma sarebbe stata molto decentrata, estremista, perdente. Sul punto, naturalmente, si possono avere opinioni diverse, ma non sul fatto che quello sia il punto. Non il pancione.

Il sollevarsi dello sdegno ha un senso estetico, ma eccede per ipocrisia nella sostanza. Che una maternità (in generale il divenire genitori, dato che la legge tutela anche la paternità) non cambi nulla, o assai poco, nella vita lavorativa, vale solo per i lavoratori dipendenti, o per i privilegiati che deambulano da un seggio all’altro, non adusi alla produttività. Non è la stessa cosa nel mondo degli autonomi, dei commercianti, dei professionisti. Dove il reddito dipende dal lavoro effettivamente svolto, dove la posizione nel mercato deriva dalla capacità di soddisfare tempestivamente i bisogni dei propri clienti, non ci sono pause o garanzie. La sola garanzia che esiste consiste nella consapevolezza che chi molla perde.

Si potrebbe e dovrebbe ovviare investendo nei servizi, capaci di alleggerire l’accudimento, per un periodo di tempo che certo non termina con l’allattamento. Ma qui si preferiscono i bonus, le regalie monetarie, puntando al voto dei genitori più che alla qualità della vita dei pargoli. Sicché non solo i servizi mancano, ma tolleriamo anche che persista la vergogna dell’esclusione dalla mensa dei bambini i cui genitori non pagano la retta. Come se quel piatto rifiutato non fosse un danno per tutti, a cominciare dagli altri compagni, sazi ma (spero) con qualche domanda imbarazzante da porre agli adulti. Sicché si tratta di stabilire se l’essere eletti e avere delle responsabilità collettive sia da allinearsi alle condizioni del lavoro dipendente o alle pressioni di quello autonomo. Far finta che le mamme e le cose siano tutte uguali significa non conoscere la realtà. Che, invece, si fa sentire forte e chiara, con un continuo declino della natalità. Che è una specie di suicidio sociale, non solo demografico.

Ma figuratevi se si può perder tempo appresso alla realtà, meglio sventolare le bandiere e gli slogan, riducendo tutto al sessismo. Visto che il tema appassiona, ne segnalo uno: Angela Merkel, in Germania, è detta “mutti”. Mamma. Lo si deve al suo rassicurare e ripetersi. Non è un gigante, la signora, anche se fanno di tutto per farla sembrare tale: prima dicono che ha straperso le elezioni (dimenticando che perdeva le amministrative anche prima di vincere le politiche), poi si scopre che il suo partito resta il più forte; prima dicono che lo “schiaffo” le sarebbe arrivato per le sue parole sull’immigrazione, poi lei veste i panni dello statista e le conferma. Anche perché la Germania ha bisogno di manodopera. Lei non è un gigante, ma gli altri hanno la cittadinanza di Lilliput. Ma insomma, fatto è che la chiamano “mutti”. Pensate se di un governate maschio si dicesse “padre”. L’ultimo che ricordo era Stalin, il “piccolo padre”. Come a ricordarci che c’è una differenza fra madre e padre, fra protezione e autorità. Ma non ditelo a quelli del politicamente corretto (alla grappa).

Pubblicato da Libero

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