Politica

Mafia, stragi e trattative

C’è un elefante che sta passando, in tema di rapporti fra mafia e politica. Ad ogni passo demolisce un edificio, ma sembra che tutti siano distratti dalla piccola scimmia che lo cavalca. L’imbarazzo è enorme, in chi trasse profitto dalle stragi mafiose, come in chi non capì, ed ancora non capisce. Quindi, prima di

muovere qualche passo fra le trattative, le stragi e le parole di Scalfaro, devo fare una premessa: non intendo correre a nessuna conclusione, ma sostenere che molte ricostruzioni di comodo si stanno dimostrando statue di sale, che brillano come oro sotto il sole, ma si sciolgono nel fango con la pioggia.
Vito Ciancimino, ex sindaco democristiano di Palermo e mafioso, trattò a nome dei corleonesi? E’ verosimile (il vero è di là da venire) che abbiano consegnato qualche capo latitante, in cambio di un patto di non aggressione per le famiglie mafiose? E’ verosimile, ma se è realmente avvenuto sarebbe la conseguenza di un ragionamento pragmatico, da parte dei mafiosi: il potere cambia, gli interlocutori cambiano, rinegoziamo la convivenza. Già, perché nella Sicilia dei Lima e dei Gioia, quella che elesse sindaco Ciancimino, un patto di convivenza esisteva, eccome. Ma se i mafiosi avessero così ragionato, ne deriva che la loro stagione stragista non serviva certo a trattare con i vecchi, ma a propiziare l’arrivo dei nuovi.
Veniamo a Scalfaro. Egli fu eletto Presidente della Repubblica non “dopo”, come sostiene, la strage di Capaci e l’uccisione di Falcone, ma a causa di quell’evento terribile. Il Parlamento si trovò annichilito e bisognoso di procedere in fretta, pertanto si scelse un vecchio democristiano, che era stato difensore dell’istituzione parlamentare e ministro degli interni con Craxi. E non è vero, come tenta di far credere Scalfaro, che il suo celebre “non ci sto”, si rivolgeva allo stragismo mafioso, bensì ad un’inchiesta della procura di Roma, che aveva dirazzato dalla linea d’azione milanese e s’era messa ad indagare i fondi dei servizi segreti, da cui proveniva una busta mensilmente consegnata a Scalfaro. Aggiungo: era lecito, la presero anche i predecessori, benché taluno la rifiutò, ma contraddittorio con il ruolo di gran moralizzatore.
Una cosa giusta, però, Scalfaro, nell’intervista al Corriere della Sera, la ricorda: a garantire la corretta azione dello Stato c’era il capo della polizia, Vincenzo Parisi. Giusto, ma è lo stesso Parisi che difese Bruno Contrada, definendolo fedele servitore dello Stato. E Contrada sta scontando la pena quale collaboratore dei mafiosi. La storia, come si vede, non può essere raccontata a spizzichi e bocconi, secondo convenienza.
Andiamo oltre. Dopo Falcone la mafia uccise Borsellino. Stessa strategia, o stessa vendetta? No, la morte del secondo si spiega meglio con l’inchiesta su mafia ed appalti, mentre il primo collaborava con il governo Andreotti. L’inchiesta non è poi andata da nessuna parte ed Andreotti finì sotto processo per mafia. Falcone, dunque, cos’era: un eroe, profondo conoscitore di cose mafiose, o uno sprovveduto? Per non avere un testimone scomodo, che avrebbe smentito un Buscetta oramai nelle mani di quelli che lo gestivano (ben altra musica, rispetto a quando era Falcone ad interrogarlo), si fermò il maresciallo Lombardo. Prima diffamandolo, poi inducendolo al suicidio.
Tutto questo coincide con la stagione del manipulitismo, accompagna la fine della prima Repubblica, e vede le stesse forze politiche a far da sostegno alle inchieste che seppellirono i partiti e quelle che li volevano anche mafiosi. Le stragi, la trattativa, il riassestarsi degli equilibri di potere, andava nel senso di favorire quel pubblico processo, celebrato in piazza. Il resto, dobbiamo ancora scriverlo.
Quando Leonardo Sciascia denunciò i “professionisti dell’antimafia” sollevò un problema reale, ma scegliendo l’occasione sbagliata, dato che la nomina in questione riguardava Borsellino. I due, poi, si spiegarono e capirono. Il grande di Racalmuto, però, non vide il mostro più grosso, che non aveva ancora prerso forma: l’uso dell’antimafia come arma politica, anche a costo di violentare la realtà. La commissione parlamentare antimafia, presieduta dal comunista Gerardo Chiaramente, non avrebbe mai fatto divenire i “pentiti” (tra virgolette, perché non sono pentiti di un bel nulla) degli oracoli giudiziari, e non li avrebbe mai fatti entrare in Parlamento. Lo fece il successore, Luciano Violante. Sono tanti i nodi che devono ancora venire al pettine, e sono molte le pagine ancora da scrivere.

Condividi questo articolo