Non è (soltanto) scritta male, ma mal concepita. La riforma costituzionale che s’avvia a essere discussa è pensata per la ragione sbagliata, sicché non potrà arrivare alla meta proposta, ovvero rendere più forte il governo. Potrà essere approvata, come furono approvate quella di Berlusconi (2005 e referendum perso nel 2006) e quella di Renzi (varata e cancellata nel 2016), potrà pure arrivare a referendum nel 2026, tanto per farne uno ogni 10 anni, ma non arriverà mai a ottenere il risultato a parole indicato.
I contenuti della riforma Meloni sono diversi da quelli della riforma Renzi. Il secondo commise lo stesso errore di Berlusconi, insalsicciando questioni diverse e finendo con il porre al cittadino tante domande diverse e consentirgli una sola risposta, che fu No. Purtroppo non avvenne la stessa cosa per la sciagurata riforma costituzionale del 2001, voluta dalla sinistra e che ora la Lega intende applicare. E non avvenne con il taglio dei parlamentari. Meloni ha capito la lezione: si riforma un tema per volta. Questo è un suo vantaggio. Ma lo scopo dell’esercizio è uguale a quello che si prefisse Renzi: arrivare al referendum e colà incassare la consacrazione. Andò diversamente.
C’è un altro aspetto che Renzi e Meloni hanno in comune: si sono trovati alla guida di governi che controllano e con un Parlamento che gli vota tutto. Sicché appare suggestivo ma insensato chiedere che il governo e chi lo guida si rafforzino: più di così non si può. Il fatto è che l’uno e l’altra hanno capito di vivere in un’illusione, quindi meglio incassare e liberarsi della propria maggioranza prima che si dissolva. Eccolo qua il punto comune: non si prova a rafforzare il governo nei confronti del Parlamento o del Presidente della Repubblica, ma nei confronti della sua stessa maggioranza, sapendo bene che è un raccogliticcio assemblaggio di diversi, in cui l’uno vedrebbe volentieri l’altro cadere.
Ragion per cui è fiato perso quello di chi grida al sorgere del regime o pensa che saranno soppresse le opposizioni: il vero e grande pericolo consiste nel provare a regolare conti politici – sapendo di non avere né di potere avere una maggioranza propria – mediante una riforma costituzionale che porti poi a un personale trionfo referendario. E questa roba porta male, perché la via plebiscitaria scatena l’avversione di tutti gli altri (alleati compresi, prego chiedere a Renzi) ed è destinata o a far perdere la guida del governo o a far perdere al governo la guida del Paese.
Tanto più che la riforma nasce da un raggiro, perché Repubblica presidenziale, semi presidenziale e premierato non sono parenti manco per niente. Sicché non si può dire che avendo promesso agli elettori la prima si mantiene la parola realizzando il terzo. E son tutti e tre sistemi sani, ma che funzionano soltanto se il resto dell’apparato costituzionale è coerente, se i contrappesi sono effettivi, se la separazione dei poteri è tutelata e se la legge elettorale è cooperante con lo schema scelto. Ma se lo scopo che ci si prefigge è quello di affrancare chi guida il governo senza avere mai avuto la maggioranza assoluta dei voti dai presunti alleati che ne intralciano il cammino e promettono di farlo cadere, allora non basta stabilire che si elegge il capo dello Stato o del governo, perché così si introdurrà la figura di un falso potente. E sono quelli che fanno la fine peggiore.
Della confusione è responsabile anche chi alla riforma s’oppone, paventando sottrazione di poteri dal Quirinale. Ma quei poteri sono essenziali e benefici nello schema costituzionale presente; se lo si cambia possono mutare, tutto sta a capire se coerentemente o meno. E se la rassicurazione è «Non li tocchiamo», è segno che il resto non regge.
Ne La coscienza di Zeno Italo Svevo scrisse: «Il vero furbo, in commercio, secondo me, doveva fare in modo di apparire melenso». Melenzi non è soltanto un errore ortografico, ma una crasi metodologica che rende la furberia troppo sfacciata e l’esito troppo sgradevole.
Davide Giacalone, La Ragione 8 febbraio 2024