Sapevamo che piazzare il merito nella carta intestata e nella targa del ministro dell’Istruzione non avrebbe comportato in automatico la sua valorizzazione nel mondo della scuola. Sapevamo che il rischio della vuota retorica era alto, sentendone l’eco nelle mille volte in cui il merito è stato tirato in ballo senza il minimo accenno a come misurarlo e premiarlo. Ma c’era pur sempre la speranza che, una volta annunciato l’avvento, si sarebbe pur dovuto dimostrarne l’intento. Speranza delusa: l’andazzo non è cambiato di un niente e oramai di tempo ne è passato.
È stato dato l’annuncio del rinnovo contrattuale per il personale scolastico. Bene, giusto. Si resta straniti dalle date, visto che il rinnovo vale per il triennio 2022-2024, che pensavamo fosse passato. Difatti lo è, ma così quel personale potrà recuperare parte del potere d’acquisto perso. Il fatto è che la strutturazione di quel contratto replica come un copiato lo schema di sempre, quindi redistribuzione dei (pochi) benefici a pioggia e differenziati per anzianità di servizio. Ma se si usa il criterio dell’anzianità si cancella quello del merito, si pagano di più quelli che si trovano in quel posto da più tempo, non quelli che in quel posto danno i risultati migliori. E, del resto, i benefici economici saranno sempre contenuti e tendenti al poco, perché se i soldi si danno a tutti – in ragione non della prestazione ma nella postazione – ne discende che a nessuno ne dai in misura significativa. Avete voluto l’egualitarismo con l’aggravante dell’anzianità? Godetevelo.
E (non ci crederete) c’è di peggio. C’è che il merito non solo non è riuscito a passare dalle vuote insegne alle sane valutazioni, ma neanche ci riuscirà. Con la complicità dei presunti e mendaci aedi del merito, dei sindacati, della rassegnazione frustrante di chi insegna bene come della soddisfazione festante di chi della cattedra apprezza soltanto lo stipendio e nel silenzio autolesionista di famiglie e studenti. Non ci sarà perché per passare dalle parole a caso alla valutazione caso per caso occorre preparare sistemi che prendono a funzionare nel tempo. E non date ascolto ai soliti letterati dell’analfabetismo, secondo cui la cultura non si può misurare. Si misura tutto.
Non sono tutti uguali i docenti, i discenti e le scuole, quindi se si vuole premiare il merito si deve saperlo trovare e misurare distinguendo i punti di partenza da quelli di arrivo. Non mi serve (solo) sapere dove si ottengono i risultati migliori in termini di conoscenze, ma dove si ottengono gli incrementi più significativi. Lì c’è l’insegnante che merita e che deve essere premiato, anche economicamente. Ma non ha alcun senso pensare di fare questa misurazione una volta nella storia, perché non si misurerebbe nulla di significativo, si scatterebbero istantanee sfocate se non fuorvianti. Mi servono la continuità, il tempo e la comparazione, così potrò disporre di radar capaci d’intercettare il merito. I test Pisa e Invalsi non devono essere la sconsolante dannazione dell’annuale constatazione che promuoviamo degli ignoranti, ma il sistema continuo con cui individuare i problemi e anche scoprire dove l’ignorante l’abbiamo messo in cattedra. E va rimosso, perché è un danno collettivo e un’offesa alle speranze dei ragazzi.
Senza individuazione, misurazione e premio del merito in cattedra (con adeguata sanzione per il demerito), questo non esisterà mai fra i banchi, fregando i meno garantiti e trasformandosi in mera retorica della durezza che fuoriesce da bocche mosce. Non esiste promozione del merito senza che sia produzione di conoscenza e cultura e se gli artefici di questo delicato e vitale lavoro li pago tutti allo stesso modo e li premio per l’essere invecchiati è ovvio che il resto diventa anche un tradimento del vocabolario, un raggiro di parole, una confusione di concetti, ovvero l’ignoranza eretta a tonitruante promessa del suo stesso trionfo nell’immaginarsi protagonista della propria cacciata. Il niente, insomma. Che è stato testé contrattualizzato.
Davide Giacalone, La Ragione 7 novembre 2025
