Politica

Metodo Napolitano

Solo chi non conosce e non valuta con attenzione la presidenza di Giorgio Napolitano ha potuto supporre che le ipotetiche dimissioni avrebbero potuto avere il sapore della rinuncia. E solo chi valuta le cose con superficialità può credere che quel “fino all’ultimo giorno”, che ieri lui stesso ha fissato quale termine del proprio mandato, sia solo l’esclusione delle dimissioni. Al contrario: rivendica a sé i poteri che ancora ha, avendo perso quello di sciogliere nuovamente il Parlamento, e annuncia che intende utilizzarli fino in fondo. In tal senso anche le dimissioni, ipotetiche, è vero, ma figlie d’ipotesi fatta al Colle e non altrove, sarebbero state, o sarebbero, un atto politico. Ora prende tempo, ma il tempo non c’è. Nomina dieci saggi. Diciamo che ciascuno di loro vale mezza giornata.

Preferendo parole e pensieri schietti, faccio una schietta premessa: il presidente Napolitano è, in questa stagione, un punto di riferimento ed equilibrio, talché mi rassicura che sia lui e non un altro a gestire la crisi post elettorale, ma ciò non significa che egli sia vittima dell’inconcludenza e sconclusionatezza delle forze politiche, giacché ne è coartefice e corresponsabile. Il bilancio del suo settennato non è esaltante, benché sulle macerie egli figuri, oggi, più come un pompiere alla ricerca dei sopravvissuti che non un seppellito dal terremoto.

La crisi non ha avuto sbocco perché un Pd gotorizzato ha posto una sciocca e autodemolitrice pregiudiziale: mai con il Pdl. Mossa ottusa, perché approfittando del lieve vantaggio di voti, tradotto in un grande vantaggio di eletti (grazie alla legge che nessuno, appunto, volle cambiare) sarebbe stato possibile, per Pierluigi Bersani, dire: va bene, l’unico governo possibile è quello con il centro destra, lavoriamoci, ma questo è il mio programma, quali sono le vostre condizioni? Dopo di che i guai sarebbero traslocati dall’altra parte. Ma vallo a spiegare a quelli che prima hanno scritto cavolate per anni, poi si sono riletti e si sono anche creduti. Ergo, al netto della grottesca rincorsa verso i frinenti, si è a un punto morto.

E qui entra in scena Napolitano: da una parte impedisce a Bersani di completare il delirante disegno, incaricandolo ai sensi del primo comma dell’articolo 94 della Costituzione (quindi obbligandolo a riportargli una maggioranza, impossibile) e rifiutandosi di nominarlo, secondo quanto stabilito dall’articolo 92; dall’altra riprende in mano la gestione della crisi, ponendo due paletti. Il primo è: non faccio un altro governo tecnico (vista anche la misera fine), ma un esecutivo che voi, Pd e Pdl, dovete plaudire con gioia e convinzione. Il secondo: se non sottostate a questa condizione, mi dimetto. Non “me ne vado”, ma “mi dimetto”.

Napolitano fu eletto nel 2006, in una condizione non molto diversa dall’attuale: una minoranza di sinistra disponeva dei voti parlamentari per indicare un proprio uomo al Colle. Disse che sarebbe stato il presidente di tutti, com’è divenuta stucchevole usanza degli eletti. Voleva dire: sarò garante dei diritti dell’opposizione, allora di destra, che non lo aveva votato. Due anni dopo la frittata s’era girata e la destra vinceva le elezioni. Da quel punto in poi, senza mai perdere l’occasione per assestare nocchini sulla capoccia vuota della sinistra (che Napolitano detesta solo un pelo in più di quanto detesti la destra), il presidente si mise a interdire il lavoro del governo. Lasciamo perdere torti e ragioni, che richiedono ben altro spazio. Quella era la zuppa. Che ha consolidato e ingigantito il non governo, a sua volta fonte generosa d’ortotterismo.

E ora? Ora, in effetti, lui sembra l’unico ragionante in circolazione. Ma se si dimette e, il cielo non voglia, finisce al Quirinale un eletto da maggioranza diversa da quella, unica, che può governare, succede una tragedia. Si sbriciola il castello (di sabbia) costituzionale. Questo è quel che vorrebbe il Pd gotorizzato, supponendo di avere fatto un capolavoro con la maldestra e autolesionista gestione delle presidenze parlamentari. Ma sbagliano, alla grande, perché facendo somme illecite ritengono che manchino loro solo otto voti, al raggiungimento della maggioranza presidenziale, laddove, invece, in uno schema di quel tipo gli si spacca il partito, lasciando fuoriuscire voti decisivi.

Quindi occorre un nome che consenta al Colle la convergenza che non si riesce a realizzare per Palazzo Chigi. E c’è: Napolitano. Per questo dico: non ha minacciato Pd e Pdl di andarsene, ma di restare. In quanto ai dinieghi, hanno lo stesso peso di quelli manifestati da Enrico De Nicola, il quale sosteneva d’essere malato. Lo rielessero e Giuseppe Saragat gli disse, a nome dell’Assemblea costituente: si curi.

Dal Pd e dal Pdl fanno sapere: abbiamo fiducia in Napolitano. Non è vero, entrambe hanno solide ragioni per detestarlo. Il fatto è più greve: quelle forze politiche si sono impantanate, oggi per maggiore responsabilità del Pd, ieri del Pdl, non sono capaci di uscire dalla marana, perché esistono solo in tanto in quanto negano l’altro, quindi, appollaiati sul tetto della loro inutile vettura, dicono al Colle: ci fidiamo, ma lanciaci una corda o una catena. Appena ne fossero fuori le userebbero per impiccarsi e spezzarsi reciprocamente le ossa. Napolitano li guarda con disgusto. Ha ragione. Se non fosse che così ha contribuito a forgiarli. Ora riguadagna tempo, sperando che capiscano. Specie i suoi ex compagni.

Pubblicato da Libero

Condividi questo articolo