Politica

Missione cinese

Molte missioni governative, dall’Europa verso la Cina, sono state e saranno “missioni di sistema”, vale a dire che il capo politico sbarca portandosi dietro altri ministri e molte imprese. L’idea che il compito dei governi sia quello di propiziare gli affari non solo non ripugna, ma grandi paesi, come Francia e Germania, ne hanno fatto una regola. Noi italiani, invece, continuiamo a seguire l’approccio di Marco Polo e Matteo Ricci: si parte in ordine sparso, quando non da soli, talora riportando grandi successi, qualche altra, più frequente, perdendosi per strada. Mario Monti giunge in Cina da solo, non sfuggendo alla tradizione. Speriamo sia un successo.

Il presidente del Consiglio conosce il mondo. I cinesi conoscono gli italiani (e ne considerano alto il valore). Gli italiani, invece, hanno idee immaginifiche della Cina, largamente concentrate attorno a: regime dispotico, che sfrutta i lavoratori e in questo modo favorisce la produzione di merci di scarsa qualità e a basso costo, con cui ci fanno concorrenza sleale. E’ anche vero, ma solo anche. Il gigante fa paura per la sua forza, ma si riflette poco sui suoi problemi e sulle trasformazioni in corso, compresa quella che porterà alla nascita di una nuova valuta internazionale, di cui scrivevo ieri.

La Cina non è una democrazia, ma si vota ed esiste concorrenza elettorale. Al di là della forma (che conta, ma credo che dalle nostre parti qualcuno dubiti del fatto che basti allestire le urne per considerare florida la democrazia), si guardi la sostanza: masse di persone sono uscite dalla sussistenza e sono entrate nel benessere, cominciando ad esercitare una libertà non secondaria, quella dei consumi. Ma non è tutto qui. La politica del figlio unico (in sé brutale, ma anche utile) ha portato a un innalzamento dell’età media, il che innesca futuri problemi pensionistici. Moltitudini di giovani, specie nelle città, sono occidentalizzati nei costumi e nei consumi. Nel distretto artistico di Pechino girano in tanti con vestiti eccentrici e capelli dal taglio anomalo, non più e neanche meno “originali” dei loro coetanei che si vestirono di nero, con pantaloni attillati e corti, a cavallo fra l’esistenzialismo e il consumismo. Qui l’omosessualità è esibita, laddove ufficialmente la si vorrebbe sgradita. I giornali parlano dei problemi della donna, ma discettano anche su quanto siano senza cuore e disponibili le cittadine metropolitane. Insomma: così come i fiumi non vanno dalle valli ai monti e la pioggia non muova dai laghi al cielo, quel che si vede è il normale procedere della vita, ove la diversità è la normalità. Il sistema, per reggere, non può neanche pensare di limitarsi a reprimere.

Già, ma non c’è libertà di stampa. Dipende da come la si racconta. Fino a qualche tempo fa la stampa occidentale non esisteva neanche negli alberghi per stranieri, ora circola. Poco, ma circola. Per strada trovi gente che protesta contro la corruzione. Magari sono eccentrici, ma ci sono. Un quaderno, pubblicamente venduto, ritrae Mao mentre indica la via, con sotto la scritta: “senso unico”. Certi siti internet sono oscurati, ma non c’è essere umano che qui non usi compulsivamente cellulari di ultima generazione, a cominciare dall’onnipresente iPhone, con i quali manda mail e dialoga. Se qualcuno pensa di potere fermare quest’onda è pazzo. Difatti non ci pensano.

A questo aggiungete i conflitti fra nazionalità, regioni e provincie, che covano in modo neanche troppo silenzioso. Il governo prova a controllare e dirigere, ma si tratta di compito non facile.

Tutti abbiamo potuto leggere di Bo Xilai, capo politico epurato. L’epurazione non è mai una bella cosa (non lo è neanche sbattere in galera gli innocenti, diffamarli, condannarli a subire a vita l’oltraggio di quel ricordo continuamente ricordato, cancellandoli dalla vita politica, per poi scoprire che sono innocenti, come capita in Italia). Questo capo politico godeva di molta visibilità e consenso, conquistato facendo il maoista in un Paese che Mao lo mette, al massimo, sulle magliette. Il vertice politico dello Stato ha usato parole chiarissime: se qualcuno si mette a fare il nostalgico della rivoluzione culturale, solleticando ricordi e reazioni, qui finisce male, quindi meglio che finisca lui. Tenendo conto che la dittatura maoista divenne feroce proprio con la rivoluzione culturale, sicché ci vuol fantasia per annoverare Xilai fra le vittime della libertà.

L’enorme problema cinese consiste nel cercare di completare la rivoluzione di Deng Xiaoping senza saltare sulle contraddizioni che crea il crescere, l’arricchirsi e il diffondersi del benessere. Il mondo, la pace e la civiltà hanno di che tifare perché il gigante non rinculi, pur sapendo che il suo avanzare creerà problemi, radicati nel familismo e nel nazionalismo. La Cina delle ciabatte fatte lavorando la notte e facendo lavorare anche i bambini è nel passato, anche quando esiste ancora. La Cina che galoppa punta ad avere una valuta forte, marchi che si affermino nel mondo, tecnologia che produca valore aggiunto. Per noi italiani queste sono opportunità. Alcuni nostri settori declineranno fino a sparire, ma per le eccellenze dell’innovazione è l’occasione di una proiezione globale, senza dimenticare la forza affascinante del Made in Italy. A patto, però, che non si continui a vivere nel passato e che del presente si comprendano anche i problemi aperti, non abbandonandosi alle menti chiuse.

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