Politica

Moderati senza politica

La povertà del dibattito parlamentare è stata lo specchio del deperimento politico e istituzionale. Spiace dirlo, ma la grande parte degli intervenuti, a destra come a sinistra, sopra come sotto, s’è dimostrata incapace di stare al tema e s’è prodotta nella lettura di testi preconfezionati. Comparse, vincolate al copione. Le fiammate polemiche sono divampate sul nulla programmatico, allo sventolare di questioni trite e ritrite, e anche un po’ ridicole. Al vociare, più scomposto che frequente, chi presiedeva i lavori del Senato, la senatrice Rosy Mauro, ha ripetutamente ricordato che: “ognuno è libero d’esprimersi come vuole, in quest’Aula”. Non è mica vero. I parlamentari devono essere liberi di dire quel che pensano, specialmente in Aula, ma non possono permettersi il linguaggio che più aggrada. Il sospetto è che, per taluni, sia l’unico del quale dispongono.

Il discorso del presidente del Consiglio ha posto un dilemma, che questa mattina verrà affrontato, ma non risolto: o il Parlamento conferma la fiducia al governo, nel qual caso si dovrà nuovamente lavorare ad un solido patto fra i moderati, compresi Fli (quindi cedendo all’originaria richiesta di legittimare la terza gamba della maggioranza) e Udc, ovvero un partito alternativo alla maggioranza di governo, almeno in questa legislatura, oppure, se la fiducia non ci fosse e venisse meno il governo nato dal consenso elettorale, si dovrà tornare alle urne. Su questo secondo punto Silvio Berlusconi è stato molto prudente, rispettoso delle prerogative del Quirinale, affermando che sarebbero gli italiani a giudicare “quando verrà il momento”. Della serie: l’unica alternativa sono le elezioni, ma non tocca a me convocarle e neanche posso dirlo troppo forte. Ha provveduto Umberto Bossi a chiarirlo: non solo si vota se non c’è la fiducia, ma anche se è inchiodata a poche unità. Detto in modo ancora più schietto: se i finiani votano compattamente la sfiducia la legislatura è finita.

L’idea di un nuovo patto fra moderati è stata enunciata, ma è rimasta per aria. E’ vero che l’area degli elettori moderati è (grazie al cielo) assai ampia, superando largamente il centro destra, ma è anche vero che le sue espressioni politiche non si sono dimostrate all’altezza del compito. Dal mondo moderato, oggi, si devono escludere gli estremismi ideologici, o quel che ne rimane fossilizzato, come le varie forme della peste giustizialista, insediatasi a sinistra, ma presente anche a destra. Vanno esclusi anche i personalismi deliranti, pro o contro. L’ampio spettro rimanente non c’è bisogno che trovi un’unica sede, semmai un’unica lingua. Ciò è reso difficile dalla limitatezza e piccolezza di molti presunti capi, disposti a dire e fare castronerie pur di appagare un protagonismo non retto dalla sostanza. La richiesta di dimissioni, quale condizione per potere riproporre l’eguale, ne è l’incarnazione tattica.

Fini e Casini sono stati già assieme a Berlusconi e, a quel tempo, la parte non moderata della coalizione era rappresentata dai leghisti, che oggi, per solo apparente paradosso, sono i più lealisti. Perché non ha funzionato? Perché mancava un disegno riformista comune, mancavano contenuti positivi, capaci di dare significato alla contrapposizione con la sinistra. Se ci fossero stati sarebbe capitato che anche pezzi moderati dell’opposizione avrebbero trovato interessante la collaborazione. Invece è bastato proporre una qualche riforma della pubblica amministrazione o della giustizia, per citare solo due esempi, che subito sono sorte le falangi difensive di burocrati improduttivi e magistrati alla ricerca di visibilità e potere. Allora, che ci faccio con i moderati se sono tali solo a condizione di non fare niente?

Anche a sinistra è successa la stessa cosa. Con l’aggravante di un totale vuoto propositivo e una devastante contaminazione giustizialista. Sicché, alla fine, potremmo enunciare la seguente regola: nella seconda Repubblica i moderati sono sempre stati maggioranza, ma sempre ostaggio degli scalmanati. Se oltre a essere moderati fossero anche capaci d’imparare dagli errori, pertanto, dovrebbero aver capito, da tempo, che non si va da nessuna parte senza risolvere la profonda frattura fra il tessuto politico e quello costituzionale. Un moderato serio si pone il problema di come agguantare la terza Repubblica, con governi dotati di poteri e opposizioni non relegate alla declamazione, mentre un estremista preferisce restare nella seconda, a campare di rendita antiberlusconiana.

La riforma del sistema elettorale sarebbe in sé sufficiente solo se si volesse restaurare il sistema vigente nel 1948: proporzionale e parlamentarismo. Già nel 1953 Alcide De Gasperi si accorse che non funzionava. Ha avuto tanti meriti, molti dei quali nascosti da una storiografia luogocomunista e imbrogliona, ma non credo proprio possa essere riproposto. Ciò significa che non basta una riforma del sistema elettorale, essendo improcrastinabile anche quella costituzionale. Devono procedere in parallelo. E questo, appunto, sarebbe il compito politico e la missione storica dei moderati, non ebbri d’odio e ideologia. E’ possibile? A giudicare dal dibattito di ieri si può al massimo dire che è auspicabile. Non senza un azzardo ottimistico.

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