Va di moda la fretta, l’imminenza della catastrofe. La vedo diversamente. Posto che quel che serve a diminuire il debito pubblico, tagliare e riqualificare la spesa pubblica, come qui inutilmente predicato, avremmo già dovuto (e potuto) farlo, posto che il tempo dei bassi tassi d’interesse (il lato luminoso dell’euro) lo abbiamo sprecato, inseguire ora i mercati con il rigore a fini esclusivamente contabili è uno sport inutile. Siamo nel pieno delle misure incommensurabili, l’apparente illogicità per cui Achille pie’ veloce non può raggiungere la tartaruga. Anziché girare impazziti come il coniglio di Alice, ansimando che “è tardi, è tardi”, sarebbe meglio riflettere.
Occorre porre un freno alle fesserie altolocate, perché se la classe politica offre uno spettacolo non esaltante c’è quella cattedratica e pensosa che ne mette in scena uno deprimente. Ma come si fa a parlare di “commissariamento” europeo, cui saremmo soggetti, senza neanche osservare quel che succede nel mondo e senza ricordare che la sovranità monetaria è stata ceduta con la nascita dell’euro? Come si fa a lamentare un’insufficienza della classe politica, senza premunirsi dal ridicolo di trascinare in un unico giudizio leaders diversi di Paesi distanti, non accorgendosi che il problema risiede nell’allocazione all’estero dei propri debiti?
Entrammo nell’euro, dopo che Prodi tentò di rinviare tale evento, proprio festeggiando il vincolo esterno, vale a dire l’obbligatoria rispondenza a parametri finanziari. Quello che oggi chiamano “commissariamento” altro non è che il bisogno di adeguarsi a quelle condizioni, che non sono affatto nate in queste settimane di crisi. Il difetto strutturale di quell’architettura, concepita quando il problema era l’inflazione e non la recessione, consiste nel fatto che federa economie diverse e lascia a ciascuno la gestione dei propri debiti. Quando saltarono i conti greci scrivemmo che il tipo di (non) reazione europea ci avrebbe portato presto a ballare il sirtaki. Poi invitammo a comprare le nacchere ed esercitarsi con il flamenco. Ora s’odono le note del can-can. Era tutto scritto, perché a ciò portava e porta il lato oscuro dell’euro. Sicché occorre essere proprio degli sprovveduti per felicitarsi delle presunte lezioni impartite da Sarkozy o dalla Merkel. Ma lezioni di che? I francesi hanno un deficit largamente superiore al nostro e i tedeschi hanno preteso di difendere le loro banche senza intervenire sui debitori. Finiranno sommersi, se l’argine non viene posto al di là dei Paesi oggi più esposti ai marosi.
Le classi dirigenti occidentali hanno potuto governare Paesi che, come ci fanno osservare i cinesi, vivono al di sopra dei loro mezzi. E’ facile dire che non ci sono più gli statisti di un tempo, ma i soldi, una volta, ce li si faceva prestare dai propri cittadini, poi dalle istituzioni finanziarie, poi li si creava con nuovi prodotti finanziari, sempre governando autonomamente i cambi. Li si spendeva più o meno bene, ma la ricchezza complessiva cresceva. Nessuno ha mai pensato di vendere i propri debiti all’Unione Sovietica, anche perché il mondo libero era assai più ricco di quella dittatura sanguinaria e immiserente. La globalizzazione ha cambiato le regole, tanto che oggi è il più grande Paese formalmente (molto formalmente) comunista a dirci che sarebbe il caso di tagliare il welfare. Quindi, al posto di Obama possono metterci un nativo, oppure un immigrato asiatico, come possono ripiazzarci un wasp, il punto sarà sempre lo stesso: o trova la forza per rinegoziare la finanza globale, imbrigliando mercati che non sono animati da finissimi e spietati speculatori, ma da una massa di ragazzi al computer, dominati dalle medie e formati nelle nostre (le loro, per la precisione) università, oppure toccherà navigare a vista e fare figure imbarazzanti, come quelle di chi dice che i mercati non capiscono o che il proprio Paese merita la tripla A.
La debolezza del nostro mondo non sta nel fatto che i cinesi hanno imparato il capitalismo senza apprendere la libertà, perché questa è una visione di disarmante ingenuità. Ci siamo indeboliti perché abbiamo smarrito l’idea di noi stessi, del nostro posto nel mondo e nella storia. Usiamo parole come “libertà” e “democrazia” per annoiarci durante le celebrazioni, avendo perso l’orgoglio di farne strumenti di ricchezza.
Pertanto, state a sentire, se la crisi e i vincoli esterni ci porteranno a liberare i nostri lavoratori, i nostri imprenditori, le nostre scuole dal morbo burocratico-clientelare e dallo statalismo satanico delle corporazioni improduttive, restituendo senso produttivo al mercato e valore politico all’azione dello Stato, ivi compreso l’uso della sua forza armata, che siano benvenuti. Ma che a spiegarcene la necessità siano quattro intartufati che hanno preservato la loro faccia dalle rughe del conflitto, che hanno taciuto nel mentre il gregge elettorale veniva portato al massacro dei voti referendari contro il mercato, la libertà e la modernità, ebbene: questo è ridicolmente inaccettabile. Da rottamare, senza rimpianti, non c’è solo la classe politica.