Politica

Mps, mietendo più soldi

Mps, mietendo più soldi

L’inutile discordia può essere fastidiosa, ma la ritrovata concordia può essere pericolosa. Salvo scucuzzarsi sul passato, le posizioni di destra e sinistra coincidono, sul Monte dei Paschi di Siena: salvare il blasone; tutelare i dipendenti; evitare lo spezzatino; mantenere Mps sotto il controllo pubblico; mantenere il legame con i “territori”; semmai allargarlo unendo alla sorte dei falliti quella di altre banche locali. In pratica mettere i bastoni fra le ruote al governo e al tandem Draghi-Franco. Desideriamo avvertire la sora Cesira e il sor Augusto, già forzatamente salvatori e azionisti di Alitalia, che tanta unità d’intenti dovrebbe indurli a nascondere il portafoglio.

Il presidente della Toscana, Giani (Pd), è stato chiaro: non si deve saltare il “territorio”. Ora, a parte la novella dicitura a sfondo rurale per definire gli “enti locali”, ovvero la politica di campanile, stia attento a che qualcuno non chieda loro di restituire i soldi. La Fondazione Mps, che, fra l’altro, ha fatto causa alla banca e bussa a quattrini, ha un consiglio d’amministrazione così composto: 8 nominati dal comune; 5 dalla provincia; 1 dalla regione; 1 dall’università e 1 dall’arcidiocesi. Non saprei per la parte tonacata, ma il resto è tutta roba del Pd. Prima che del Pd della sinistra e del fu Partito comunista italiano. Direi che il risultato dovrebbe indurli più a defilarsi che al piazzarsi per riallungar le mani. A questo si aggiunga che il seggio senese era dell’allora ministro Padoan, eletto dopo avere salvato da banca con i soldi di Cesira e Augusto e, ora, è nelle ambizioni del segretario del Pd, Letta. Sull’evidenza di una non esaltante commistione è difficile dar torto a Meloni. Ma la destra propone di continuare l’andazzo, dopo averne ricordato il non commendevole passato. Chiedono un Mps che conservi identità e indipendenza, come il Pd Misiani. C’è uno di loro, anche uno solo, in grado di trovare i capitali, senza guardar con cupidigia il contribuente?

La risposta è: no. Sol per questo è giusto venderla a prezzi Upim a UniCredit? Questo è il punto politico su cui incalzare i negoziatori di parte governativa, senza puntare dritto alla trasfusione di soldi pubblici. Considerato che già 15 miliardi se ne andarono. Non è del tutto esatto che UniCredit sia la sola offerta, perché, si vedano anche le osservazioni che qui ha fatto e oggi fa Bancor, ci sono fondi che sarebbero pronti a intervenire per mettere a profitto quel che ancora lo consente della più antica banca del mondo (risale al 1472), divenuta la più longeva mangiatoia e giunta a essere la peggiore fra le 50 prese in esame dalla vigilanza europea. Solo che i fondi fanno macelleria, perseguendo il profitto. L’alternativa che piace alla politica è la terapia intensiva che produce perdite. UniCredit è una via di mezzo, scelta dal governo.

In pratica: lo Stato si tiene la monnezza, il privato prende l’utilizzabile, il governo cava le gambe da una trappola che scatta a fine anno, perché il pregresso salvataggio è stato autorizzato solo se a tempo. Non un bel vedere, tanto che i negoziatori pubblici, fermo restando il terzo obiettivo, dovrebbero lavorare quanto meno a dividerla, la monnezza. Ma restano senza neanche le mutande se gli azionisti del governo smontano proprio il terzo obiettivo, rendendo assai più forti i negoziatori di UniCredit. La loro concordia ricorda quella pilotata dall’indimenticabile Schettino.

Davide Giacalone, La Ragione

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