Politica

Muammar è ancora lì

Muammar Gheddafi è ancora al suo posto, combatte e guadagna posizioni. Ciò non significa che abbia un gran futuro davanti a sé, ma che la partita politica è ancora aperta e che il tempo lavora a suo favore. Resistendo e non sottraendosi alla guerra civile è riuscito a mettere in evidenza le debolezze di un fronte internazionale tanto vasto da poterlo schiacciare in un attimo, ma tanto debole da non essere riuscito ad eliminarlo. Mettiamole in fila.

1. Il Presidente statunitense ha fatto la faccia dell’arme, ma l’apparato militare non gli è andato dietro. Obama ha usato parole durissime, ma la Clinton non ne ha usate affatto. Più che un gioco delle parti sembra un’evidente diversità di posizioni. 2. L’intervento armato avrebbe potuto risolvere la faccenda in uno schioccar di dita, ma le cose non sono così semplici. Assicurare che l’aviazione libica se ne stia a terra significa posizionare le portaerei nel golfo della Sirte. E non si sono viste. Bombardare non basta, perché poi servono le truppe a terra. Mettere piede in Libia è escluso, perché si comprometterebbe il già fragile equilibrio in Arabia Saudita e si chiamerebbe la Lega Araba alla condanna unanime. 3. Per queste stesse ragioni il Presidente francese parla di azione militare immediata, perché tanto sa che non si farà. 4. Gli inglesi la pensano in modo simile, ma i loro agenti si sono già fatti beccare nel mentre lavoravano (e male) in proprio. 5. Nel deserto libico, e mediante il solo uso delle parole, è così affondata l’Europa. Non solo gigante economico e nano politico, ma direttamente mollusco internazionale. 6. Nel frattempo gli iraniani si allargano, i turchi mostrano il loro volto peggiore e negli altri Paesi mediterranei attraversati dalle proteste di piazza la migliore garanzia contro il fondamentalismo islamico restano i militari. Non c’è che dire, un vero trionfo della democrazia. 7. Come se non bastasse il vecchio Muammar, con un piede nella tomba politica e l’altro saldamente piantato in Tripolitania, si mette a dar lezioni sulla prevenzione del terrorismo internazionale. Lui, che ne è stato regista e finanziatore.

Uno spettacolo politico complessivamente raccapricciante, frutto del disunirsi delle democrazie e del ridursi delle loro classi dirigenti. Ciascuno ha pensato d’essere più furbo degli altri, ciascuno di favorire meglio i propri interessi nazionali, e tutti sono finiti nella trappola dell’impotenza. La soluzione sarebbe stata a portata di mano, se solo qualcuno avesse potuto disporre di qualcosa di simile a servizi segreti efficienti. I dittatori si ammazzano dentro i loro Paesi, per mano di connazionali, se si ritiene che sia giunta la loro ora. Invece è divenuto di moda spiccare mandati di cattura e chiedere processi, da celebrarsi davanti a improbabili corti. Processi nel corso dei quali le democrazie finiscono con il condannare se stesse e le loro relazioni d’affari (a proposito: perché i capitali libici sarebbero oggi intrattabili, mentre lo erano ieri e lo restano quelli di nazionalità non meno lontane dal rispetto del diritto e dei diritti?).

In questa condizione non si può restare a lungo. Se Gheddafi non fosse eliminato o non togliesse il disturbo (spontaneamente non lo farà mai), ciò comporterebbe la divisione della Libia. Il beduino abbandonò i programmi nucleari, separandosi da iracheni e iraniani, divenne amico dell’occidente, stringendo le mani di governi dei cui cittadini aveva sparso il sangue. Quegli stessi governi che non sono riusciti né a trarne il massimo profitto, né a impartirgli la massima punizione.

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