Politica

Mutande di latta

Forse varrebbe la pena di ragionare, in modo da non fare la fine della mosca contro al vetro, in attesa della giornalata assassina, e da tenere conto della condizione in cui si trova l’Italia, evitando di scherzare con il fuoro. Scajola, Brancher e Cosentino si sono dimessi per evitare al governo di affrontare le rispettive mozioni di sfiducia. Quelle mozioni, in un certo senso, sono state presentate per interposta opposizione, ma sono nate dentro l’area di governo. Tutti e tre i casi, inoltre, sono stati incubati nelle inchieste giudiziarie e sono deflagrati grazie al non casuale passaggio d’intercettazioni telefoniche ai giornali.

Ci sono due cose che risultano inutili, e anche un po’ patetiche: proclamare l’innocenza dei coinvolti e pensare di risolvere la questione con la legge sulle intercettazioni. La prima cosa è superflua, sia perché alcuni dei coinvolti neanche sono indagati, sia perché il problema è politico e non giudiziario. La seconda è illusoria, sia perché il testo emendato e smidollato serve ancor meno di quello originario, che già era inutile, sia perché tutto quello che c’è da pubblicare sarà pubblicato prima, come sta puntualmente accadendo.

Mentre il pandemonio infuria, però, la manovra economica da 25 miliardi, per il tramite del caro vecchio emendamentone illeggibile, con annessa e prevista fiducia, passa senza gran trambusto. Né in Parlamento né nelle piazze, nonostante l’impudica presa in giro sui costi della politica. Sembra di vivere in un Paese che non crede più neanche nella protesta, mentre l’opposizione ha da dire cose bolse e rituali. Eppure, a dispetto della calma apparente, ci sono dati che inquietano. Il prodotto interno riprende a camminare, lentamente, ma con la disoccupazione non accenna a diminuire. Di riforme strutturali si parla solo nei convegni, prima dell’abbufet. A questo aggiungete un segnale importante: la Fiat licenzia, a Melfi, tre operai della Fiom, accusandoli di avere bloccato un carrello. Ciò all’indomani del referendum tenuto a Pomigliano. Una reazione inconsulta o esagerata, da parte sindacale, metterebbe Fiat nelle condizioni per uscire dalla partita. Può darsi che non sia così, ma è sicuro che l’autunno richiederà ragionevolezza e forza governativa. Che scarseggiano.

Dopo Pier Ferdinando Casini, anche Massimo D’Alema sostiene la necessità di un governo di larghe intese, per uscire da questa situazione. La differenza fra i due è surreale: Casini non pone un veto contro Silvio Berlusconi, D’Alema sì. Peccato che le elezioni non le abbia vinte né l’uno né l’altro. Tralasciamo il dettaglio, guardiamo alla sostanza: le larghe intese servono a fare riforme profondissime o a immobilizzare tutto? Fin qui: la seconda che hai detto. Questi sempre giovani, che stentano a divenire adulti, dimenticano d’essere stati gli avversari dei tagli alla spesa pubblica e gli alleati del giustizialismo procurocentrico. Mettendosi assieme c’è il ragionevole rischio che diano il peggio di sé, anziché l’azzardata speranza che diano il meglio. Sostenere questo, del resto, non significa affatto negare le difficoltà, enormi, in cui sta affondando la maggioranza che, anzi, sono state qui descritte ed evidenziate anche quando cotali condottieri erano presi dallo studio del proprio ombelico. Dubito, però, che essi siano la soluzione.

Cosa faranno, ad esempio, quando dalle inchieste uscirà ancora veleno? Diranno: la giustizia faccia il suo corso. In venti anni hanno solo imparato ad aggiungere: ma c’è la presunzione d’innocenza. Loro hanno quella d’incoscienza, e il modo in cui se ne stanno zitti e coperti sul caso del generale comandate dei Ros, che noi soli abbiamo avuto il coraggio di sollevare, la dice lunga sulla coda di paglia e la strizza poco sotto.

Berlusconi, dal canto suo, commetterebbe un grave errore se pensasse di cavarne le gambe anticipando le prossime mozioni di sfiducia solo azzerando i probabili bersagli e i vertici del suo partito. Sono falsi obiettivi, e c’è anche il rischio che provi a sostituirli con persone ancora meno aduse alla politica (ammesso che esistano in natura). La partita è diversa: la legislatura è iniziata con un imponente successo elettorale, confermato alle regionali, sicché si deve darle un senso politico, sia che duri sia che crolli, il che esclude l’agonio tirare a campare e impone la fissazione di obiettivi alti, enunciati pubblicamente, sui quali rigenerare le alleanze e, se del caso, cadere. Senza lasciare troppe carte al Quirinale. Non si sveni per quella leggiucola sulle intercettazioni, affronti la questione della giustizia, quella vera, quella di un potere che sta mettendo in scacco lo Stato. Non pensi a sé, pensi ai capi della polizia e dei Ros, tutti condannati o sotto processo. Porti ciò, non qualche tirapiedi di provincia, all’attenzione dell’opinione pubblica. Poi parli di scuola, ma andando al cuore: abolizione del valore legale del titolo di studio. Parli d’amministrazione pubblica, ma pensando in grande: far entrare il mercato nella gestione, per portare risparmi ed efficienza. Insomma, si rivolga al Paese che ancora lo vota e che assiste sgomento all’autodistruzione di quel che ha votato.

Sono sicuro che gli italiani se ne infischiano di quel che eccita tanti giornalisti, non rivolgendo grande attenzione né alle cravatte di Fini né alla canotta di Bossi, come non gliene importava una cicca di dove mettesse gli occhiali Bertinotti o di che colore fosse il trattore rosso di Di Pietro. Agli italiani interessa non dovere andare in giro con le mutande di latta, per evitare sorprese.

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