Il Presidente della Repubblica ha espresso la speranza che “sulle relazioni industriali”, vale a dire sulle modalità con cui Fiat ha ottenuto i nuovi modelli contrattuali, “si trovi un modulo più costruttivo di discorso”. Napolitano riconosce che c’è un problema di produttività del lavoro, con questo dispiacendo all’ala dura della Fiom, ma, pur senza nominarlo direttamente, ammonisce Sergio Marchionne a non continuare con l’approccio: o si fa come dico io o rinunciamo agli investimenti, così avviando a chiusura gli stabilimenti. Purtroppo non è un problema di bon ton. Il segretario generale della Cgil lo ha capito ed ha avuto il coraggio di dirlo. Meriterebbe d’essere aiutata.
Napolitano ha ragione quando dice che la produttività non dipende solo dalla condotta delle maestranze, che, aggiungo io, da noi sono mediamente assai qualificate. Si deve guardare anche agli investimenti fatti, all’innovazione introdotta e al contagocce con cui i privati spendono nel settore della ricerca. Ma è un grave errore credere che questa sia materia confinabile alle relazioni industriali, quindi al rapporto contrattuale fra impresa e rappresentanze sindacali, perché la competitività è una sfida per l’intero sistema Italia.
Per quel che riguarda la sorte della produzione industriale, quindi degli stabilimenti insediati nel nostro Paese, nessuno riuscirà a smentire la ferrea logica che Marchionne ha avuto il merito di far valere, anche ruvidamente: non solo la produzione deve essere conveniente, ma l’investimento deve essere valutato anche tenendo conto delle opportunità offerte in altre parti del mondo. Mi rendo ben conto che un simile realismo fa saltare gli altari consacrati alla concertazione, ma ciò è la conseguenza di un fatto positivo: la globalizzazione. E può essere la premessa di conquiste ancora più positive, ma a patto di conoscere e capire il mondo in cui si vive. Molte delle “conquiste” fatte nel passato, invece, furono distorsioni ideologiche e distruzioni di ricchezza, premesse che hanno dato i loro frutti negativi. Colpa anche di Fiat, quando era incarnata dall’uomo, Gianni Agnelli, che, da presidente di Confindustria, firmò l’accordo per il punto unico di contingenza. Una conquista? No, un errore, che produsse più inflazione e più spesa pubblica, per sussidiare le imprese. Allora il “modulo” delle relazioni industriali era considerato assai “costruttivo”, ma il risultato fu distruttivo.
L’incubo da cui si deve uscire è quello di credere che la rinuncia al totem del contratto unico nazionale sia sinonimo di riduzione in schiavitù per gli operai. A Pomigliano non solo si sono conservati i posti di lavoro, ma il nuovo contratto prevede la possibilità di guadagnare di più. Semmai il discorso è un altro: visto che turni e organizzazione del lavoro devono puntare a far crescere la produttività, e visto che ciò è dovuto al vivere in un mercato aperto alla concorrenza, né quelle aziende né quegli operai è giusto che siano gli unici a dovere interpretare i tempi nuovi e i relativi rigori. Non è ingiusto che gli operai di Pomigliano lavorino con turni diversi, è ingiusto che con le tasse da loro pagate si finanzino lavori protetti e improduttivi. Al punto che mentre la vecchia politica invita tutti a linguaggi e toni più soffici e concilianti c’è il caso che le forze produttive s’accorgano dell’espropriazione fiscale che subiscono, coalizzandosi nel ritenerla iniqua. Le buone maniere, a quel punto, saranno difficilmente invocabili.
La Fiom ha il grosso torto di vivere nel passato, immaginando nell’impresa la controparte e, pertanto, sentendosi interprete di verità finite in minoranza. Al che reagisce nel più dissennato dei modi, radicalizzando le posizioni. Forse sarebbe il caso di rivolgere maggiore attenzione alla spesa pubblica, senza identificarla dogmaticamente con la spesa socialmente preziosa. Non c’è dubbio che sia utile il dialogo, come chiede Napolitano, ma molto dipende da cosa si discute e con che tasso di realismo.