Politica

Non osare è fallire

I soldi ci sono, ancor di più le occasioni per fare presto e bene, risparmiandone molti e facendo crescere il valore dei servizi resi. Per capitoli come l’edilizia scolastica e il pagamento dei debiti pubblici verso fornitori privati abbiamo già descritto il possibile percorso virtuoso. Anziché star lì a dire che il governo Renzi non ne sarà capace preferisco controllare che non sprechi l’occasione. Aprire il credito è il modo più onesto per operare l’addebito. Tutto questo diventa ancora più chiaro e promettente se applicato all’esempio della scuola.

Se usciamo dall’incubo protettivo, con cui molte famiglie sembrano voler smidollare i pargoli, se osserviamo quel che quegli stessi (come i loro genitori) guardano nel tempo libero, da X Factor ad Apprendice, passando per Masterchef, scopriamo l’ovvio: la competizione e la selezione sono considerate naturali, la meritocrazia benefica. Rinunciarci significa trasformare la scuola in tempo perso. E non è un caso che con università poco selettive si abbia anche il più basso numero di laureati. Nessuno ama le cose inutilmente onorifiche, che non portano conoscenze, quindi vantaggi misurabili. Quindi, prima rivoluzione: misurare.

Misurare le conoscenze dei ragazzi significa misurare le capacità degli insegnanti. Misurare il successo dei diplomati e dei laureati, nella vita, significa misurare la bontà di quella scuola o di quella facoltà universitaria. Per misurare si devono usare criteri seri, ponderandoli con le difficoltà o le facilitazioni ambientali. Non servono più soldi, ma usare bene quanti sono già pagati per farlo. E produce ricchezza. Immaginare aumenti di retribuzione senza prima avere introdotto l’abitudine alla misurazione significa aprire un’ulteriore falla nella spesa corrente. Capisco la pressione da parte dei diretti interessati, ma non capisco come un governo possa insediarsi e dire, al tempo stesso, che si deve fare la spending review e pagare di più i dipendenti. Le due cose sono conciliabili solo a patto d’introdurre il premio al merito e la penalità al demerito.

In tal senso non solo aiuta, ma è fondamentale la seconda rivoluzione: digitalizzazione della scuola. Si può fare subito, consente risultati immediati, fa emergere i giacimenti di valore e mette in luce i pantani disfunzionali. Il costo della rivoluzione è inferiore al costo della conservazione, perché ai soldi spesi dallo Stato devono sommarsi, anno dopo anno, quelli spesi dalle famiglie. Adoro i libri, ne ho un bisogno fisico, ma da anni non compro più la gazzetta ufficiale, perché la trovo on line. La stessa cosa vale per i testi scolastici. Su questo tema si toccano alcune sensibilità, con non pochi genitori che temono l’eccessiva digitalizzazione espressiva dei figli. Credo debbano temere l’ignoranza 2.0, consistente nell’uso dei terminali solo per giocare e pettegolare. In quanto all’uso della lingua italiana, non mi pare che la permanenza ottocentesca delle antologie stia producendo risultati ragguardevoli. Poi c’è altro genere di sensibilità, quella degli stampatori che perdono business. Su ciò: chi se ne frega.

Ritardando la seconda rivoluzione si sprecano soldi delle famiglie, ci si tiene una scuola arretrata (era più evoluto Alberto Manzi, negli anni sessanta, visto che usava la televisione), e si distruggono occasioni di guadagno. Perché noi abbiamo Made in Italy di grande valore, nel campo della didattica e dei servizi digitali, ma ci ostiniamo a buttare soldi in un analogico regressivo, con il risultato che quando dovremo pur adeguarci finiremo con il comprare tutto fuori. Senza contare che già solo abituando gli studenti a usare anche i test computerizzati riusciremmo a risalire notevolmente nelle classifiche internazionali, dove compariamo a livelli imbarazzanti.

Il digitale aiuta a intersecare i percorsi scolastici, consentendo la terza rivoluzione: classi mobili e non plotoni che muovono compatti per anni, salvo i morti in battaglia. Il che favorisce sia la specializzazione professionale anticipata, in collaborazione con il mondo produttivo (così si coprono i posti di lavoro che esistono e restano vacanti), sia l’accorciamento dei tempi, cancellando l’anno in più che i nostri ragazzi passano a scuola, rispetto alla media dei paesi con cui si troveranno in concorrenza. Diminuisce il bisogno d’insegnanti? Se fosse, non mi parrebbe un buon motivo per non farlo. Ma non è, perché il personale recuperato potrà essere utilizzato per tenere aperta più a lungo la scuola e renderla centro vivo anche per altra cultura. Penso, per esempio, alla musica, che tradiamo tradendo noi stessi.

Sono tutte occasioni a portata di mano. Che non solo non comportano maggiore spesa, ma favoriscono il contrario, oltre a portare soldi da fuori (sia in termini di fondi europei che d’investimenti privati). La scuola farebbe scuola, per un più generale cambiamento di mentalità. Non osare è già fallire.

Pubblicato da Libero

Condividi questo articolo