Politica

Non solo Fiat

C’era una volta l’Italia in cui il contratto dei metalmeccanici, la sua discussione e il suo rinnovo, in un contorno di riflessioni operaiste e lotte di classe, era rivelatore dello stato di salute politico e sociale dell’intero Paese, intonando una melodia cui s’accodava il resto delle relazioni industriali. C’è, ora, l’Italia in cui la più grande impresa del settore metalmeccanico manda a fondo l’idea stessa del contratto, e manda a spasso i colleghi confindustriali, senza che la cosa lasci traccia profonda in un mondo politico tutto preso a perdersi in sé medesimo. Che questo fosse l’andazzo, del resto, lo avevamo segnalato nel mentre si svolgeva il surreale referendum di Pomigliano d’Arco, quando gli operai di quella fabbrica furono chiamati a esprimersi sugli effetti della globalizzazione. Come se a qualcosa serva la loro opinione. Come se possa essere rilevante in uno stabilimento e non anche in tutti gli altri, di quella e delle altre aziende.

Si dice che tutto questo sia opera di Sergio Marchionne, con il suo girocollo (a proposito, va bene volere avere un’immagine originale, ma fa caldo, l’uomo non sembra gracile e denutrito, perché si ostina a volere essere “quello del maglioncino”?). Va di moda dire che un manager globalizzato deve navigare i mercati, senza inutili patriottismi. A questo si aggiunge un ulteriore concetto: la Fiat di una volta la pagavamo noi italiani, rendendo convenienti (per la proprietà) investimenti da cui la collettività ricavava un utile sociale, in termini di occupazione, se si vuole continuare a pagare si può mettere alla porta Marchionne, dopo aver tirato fuori i dobloni, ma se lo si vuole evitare, come pare saggio, allora si deve tacere quando è Marchionne a chiudere la porta in faccia alla politica e ai sindacati. E’ vero. In fondo ha ragione l’antico adagio partenopeo: chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scurdammoce o passato.

Il fatto è che continuiamo a parlare del caso Fiat, più in generale del settore auto, come se si trattasse di una eccezione, quando, al contrario, sarà la regola. Oggi è Fiat a poter dire che uno stabilimento resta in piedi solo se si licenziano tutti gli operai e li si riassume a condizioni nuove, più utili all’impresa, oppure che un intero contratto di categoria è carta straccia, ma questa sarà la musica sempre più suonata e ascoltata. Una musica, ed è questo il problema, che la politica non riesce a governare, forse neanche s’accorge che dovrebbe farlo. O, almeno, provarci.

Ancora oggi ci raccontiamo di avere resistito meglio di altri Paesi alla grave crisi finanziaria che ha scosso il mondo. Ed è vero, ma ci siamo riusciti grazie a istituti (come la cassa integrazione) non necessariamente compatibili con un mondo in cui la Serbia ci fa concorrenza fiscale e sociale, creando condizioni vantaggiose per l’impresa e, quindi, attirando investimenti su di sé. Possiamo proteggere alcuni lavoratori, e per qualche tempo, dagli effetti di questo modo di procedere, ma mai e poi mai potremo proteggere tutti e per sempre. A spese di chi?

Né, del resto, possiamo abbandonare i lavoratori alla concorrenza che li contrappone, spiegando ai napoletani di vedersela con i polacchi e ai torinesi di vedersela con i serbi. Se così fosse verrebbe meno la ragion d’essere della coesione sociale e della sopravvivenza istituzionale. Insomma: se il lavoratore contratta in un mercato troppo grande, sul quale non ha influenza, e se l’impresa compete in quel mercato, alle cui leggi non può sfuggire, di grazia, a che servono sindacati, partiti e istituzioni? A mantenere quelli che ci lavorano e riescono a farsi eleggere?

Non è così, perché la partita non si limita al costo del lavoro e ai vantaggi fiscali, è più ampia e complessa, investendo il confronto non solo fra diversi sistemi-Paese, ma anche fra diverse aree nel mondo. Quindi non solo la politica e le istituzioni servono, ma ne servono di più e di maggiore forza, capaci d’intessere alleanze internazionali (all’expo di Shangai si sta facendo un lavoro eccellente nei rapporti con la Cina, nel delicato e vitale settore dell’innovazione, ma di questo si parla poco e niente, come fossero dettagli per cultori della materia). Solo che, per servire, la politica e il sindacalismo devono essere capaci di parlare la lingua del mondo reale, facendo i conti con i problemi di tutti. Se oggi si ha la netta sensazione di una collettiva inutilità è perché i sindacati parlano di sé stessi e la politica parla delle stesse identiche cose da sedici anni, senza essere riuscita a cavare un ragno dal buco. Non si chiedano, poi, di chi è la colpa se diventano numerosi i cittadini che li considerano mangiapane a tradimento.

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