Politica

Nucleo malato

Albania e Italia hanno firmato, per mano dei rispettivi capi di governo, Sali Berisha e Silvio Berlusconi, degli accordi strategici, prendendo in considerazione l’ipotesi di costruire nel primo Paese dei rigasificatori e delle centrali nucleari. Oggi leggerete molti commenti sulle cose che non contano niente, a cominciare dalle battute poco pensate, mentre occorrerebbe riflettere sul resto. Berisha ha ricordato che gli imprenditori albanesi sono cresciuti, in Italia, dai cinquemila del 2005 ai ventiduemila di oggi, e ha citato, con orgoglio, la sua politica liberista, che ha consentito una crescita del pil del 4% in piena crisi, mentre noi perdevano il 4.9. Hanno bloccato il flusso migratorio e reprimono in casa la criminalità. Bravi.

Ora si candidano a fare, anche con i nostri soldi, quel che noi non siamo capaci. Quando potranno stoccare il gas portato con le navi cisterna, quindi non dipenderanno esclusivamente dai gasodotti, come noi, e potranno comprarlo ad un prezzo inferiore, quando avranno anche l’energia atomica, realizzeremo questo formidabile scambio: loro ci mandano gli imprenditori e noi gli mandiamo gli operai. Formidabile. L’orrido consiste nel fatto che c’è chi ha commentato tale accordo come se noi avessimo trattato l’Albania al pari di una discarica, dove mettere le cose che ci fanno schifo. Ma rigasificatori e centrali sono ricchezza, mica pattume, loro ci sottrarranno valore, mica scarti. Come glielo racconti, però, ai matti che, da noi, vorrebbero bloccare qualsiasi grande opera?

Nel dibattito sulle centrali nucleari si trova il nucleo di molti mali italiani. Istituzionali, politici e culturali. La confusione d’idee e la paura di dire le cose come stanno, alla fine, portano la faccenda a trasformarsi in contenzioso legale, così, tanto per cambiare, si aspetta che sia un giudice (in questo caso costituzionale) a dire cosa e come si deve fare.

Al governo va il merito di avere seriamente riaperto il discorso, e al ministro Caudio Scajola deve essere riconosciuto quello di battersi con tenacia. Ma è difficile non rilevare che tutti i candidati di centro destra alle elezioni regionali non perdono occasione per dire che le centrali non si faranno sul territorio che sperano d’amministrare. Figuratevi gli altri. Ma che razza di modo di ragionare è? Mi dicono: cosa vuoi, siamo in campagna elettorale. Come se la propaganda politica consista nel prendere in giro la gente e, per giunta, nell’allontanare investimenti e opere pubbliche. Direi che, anche per ragioni di salvaguardia ambientale, dovrebbe essere vero il contrario. Se fossi candidato la metterei così: al netto degli accertamenti geologici e degli altri parametri di sicurezza, le centrali le mettete qui da me, personalmente prendo casa nei pressi di una di queste, e mi date una valanga di quattrini con cui realizzo opere di pubblica utilità. Insomma, come se la politica fosse anche l’arte del fare, non solo del sapere incantare.

Se il problema riguardasse solo il nucleare, si potrebbe rimediare con un corso d’aggiornamento e con la ragione che fughi la superstizione, ma lo stesso meccanismo scatta troppo spesso: per la Tav, per i termovalorizzatori, per le autostrade, e così via. Si pensa che sia popolare il rifiuto, come se vivessimo ancora nelle caverne, e gli esponenti politici dicono Sì quando si trovano a Roma, ma No quando tornano a casa.

Il nucleare, però, ha un sovrappiù di rifiuto, ammantato di tutela contro non si sa quali tragedie. I petrolieri spesero soldi in tutto il mondo, per consentire di far propaganda al sole che ride (alle nostre spalle), ma solo da noi siamo rimasti fermi a quel punto, come in un malefico incantesimo. C’è ancora una radiazione tossica che emana dai referendum del 1987, nessuno dei quali era contro il nucleare, ma solo contro le agevolazioni e i criteri d’allocazione. Quei referendum sono una delle pagine peggiori del socialismo italiano. Ricadde sotto la gestione di Bettino Craxi ed ebbe il principale interprete in Claudio Martelli. Singolarmente, però, nessuno la cita, questa pessima pagina, anche quando s’impegna a parlar male di quel che non conosce.

Siamo letteralmente circondati dalle centrali nucleari. Comperiamo, a caro prezzo, energia elettrica da quelle prodotte. Ci lamentiamo per i gas serra, ma escludiamo una fonte elettrica che non li genera. Ripetiamo a pappagallo le solite menate sulle energie rinnovabili, ma dipendiamo dal petrolio e, sempre più, dal gas, mentre anche l’idroelettrico diminuisce il suo peso percentuale. Facciamo credere che al nucleare si leghino chissà quali stermini, ma il numero di morti provocati dalle altre fonti è incomparabilmente superiore, senza che nessuno, sano di mente, pensi di abbandonarle. In compenso continuiamo a discutere mettendo in campo i fondamentalisti dell’unica fonte: chi vuole il vento, chi il sole, chi il carbone nuovo, chi il nucleare, chi vorrebbe andare a pedali. Mentre è evidente che l’approccio più serio consiste nell’ultilizzarle tutte, facendo crescere realmente le rinnovabili. Solo che appena pensi di piazzare una pala eolica, o fare un parco solare, arrivano gli ecoambiantalisti locali e ti dipingono come un distruttore del mondo.

E veniamo alla questione istituzionale, che è seria. Ho sentito vari governatori e candidati tali dire: in Lombardia, Veneto, Lazio, Sicilia, Puglia, e praticamente ovunque, non ne abbiamo bisogno. Simili sciocchezze possono essere dette giacché fu approvata la sciagurata riforma del titolo quinto della Costituzione, con cui la sinistra si mise a scimmiottare la Lega. Quel federalismo masochista ha cancellato il concetto di “interesse nazionale”, poi ripristinato dalla riforma successiva, ma affondato da un referendum confermativo che andò quasi deserto, ma bastò a lasciare immutato lo scempio. Sicché oggi chiediamo alla Corte Costituzionale di dirci se le scelte di politica energetica debbano essere compiute dal legislatore e governante nazionale o dagli amministratori locali. Considerato che si tratta di mercati e dimensioni in cui il peso di una singola Nazione rischia d’essere troppo leggero, fatevi un’idea della follia.

Scajola e il governo, lo ripeto, cercano di fare la loro parte, ma la necessità di conciliare volontà e prudenza, o, per dirla in modo più ruvido, per evitare di prendere una musata dalle regioni che essi stessi amministrano, finiscono con il  procedere con tempi da bradipo, prefigurandone di ancora più lunghi: solo per consultare le regioni se ne vanno diciotto mesi. Basta che uno dei passaggi comporti un ritardo, come  probabile, ed entro questa legislatura non si posa neanche la prima pietra. A quel punto si rivota, si ridiscute, ci si ripensa e si rimanda.

Se solo la produzione industriale e la vita civile potessero essere alimentate a chiacchiere, ci saremmo garantiti l’indipendenza energetica, divenendone esportatori.

Condividi questo articolo