Politica

Nuovo patto

Un nuovo “patto sociale” presuppone che i contraenti di quello vecchio prendano atto della realtà mutata, cambino mentalità, riuncino ai pregiudizi. Sergio Marchionne ha utilizzato la stessa immagine che c’era capitato di evocare, sottolineando l’inadeguatezza di un ragionare attorno a categorie inadatte, come quelle di “operai” e “padroni”. Andavano bene in sistemi chiusi, perdono significato in un mondo aperto. Avevano un senso nell’Italia dell’agnellismo, con il padrone bello e impossibile e gli operai assorbiti nella catena fordista, invasi fin nel privato. Oggi è Marchionne ad avere l’aria decisamente più sbattuta dei tre che ha licenziato, posto che lui e ricco e quei tre no.
Si deve, però, far bene attenzione a non pensare che la rottura dei vecchi equilibri valga per gli uni e non per gli altri, possa farsi pesare sul lavoro, ad esempio, e non anche sulle strutture proprietarie e sulle speculazioni che mascherano. I buoni cambiamenti non sono quelli indotti dal prevalere del più forte, ma dal combinarsi di forze diverse, animate da una visione politica del benessere collettivo.
Mi ha colpito che Giulio Tremonti abbia volto ricordare gli scritti (poca roba, in verità, ma densa) di Enrico Berlinguer sull’austerità. Al netto dei tatticismi politici, l’austerità berlingueriana non è di nessuna attualità. Era una versione punitiva e anticapitalista, monastica e moralista, della crisi, indotta dai problemi energetici. Mi ha colpito perché c’era la possibilità, scandagliando quella stessa sinistra e quegli stessi mesi (siamo nel 1977), di trovare un riferimento più utile, appropriato e capace d’indirizzare le scelte future: il Luciano Lama accortosi che il salario non è una variabile indipendente dai conti aziendali, dalla produttività e dall’andamento complessivo dell’economia. Oggi è un concetto scontato, ma anche allora Lama era in terribile ritardo. Non un anticipatore, non un preveggente, solo uno che capì (tardi) quanto fosse controproducente, per gli interessi degli operai, pretendere di far prevalere la visione ideologica sulla realtà (tra parentesi: Berlinguer non gradì, isolò progressivamente Lama e concluse la sua carriera politica fuori dai cancelli della Fiat, appoggiandone l’occupazione e commettendo l’ultimo errore di un comunista che detestava la libertà economica e la paragonava al vizio e allo spreco).
Al sindacato di oggi si deve chiedere analogo realismo. Con minore ritardo. Ma si deve chiederlo anche alle società e alle loro proprietà. L’opacità delle strutture proprietarie, che si potrebbe chiamare anche “riservatezza”, per intenderla in senso non immediatamente negativo, è un’ansa nella quale s’accumula inefficienza. I conflitti d’interesse diventano “sinergie”, ribaltando ancora l’indirizzo delle definizioni, solo per gli interessi opachi. Il nostro è un Paese assai ricco, che ha le forze necessarie per correre nella competizione globale, ma anche tanta buona carne che non pochi tendono a portar via a fette e tocchi, per poter pasteggiare da soli, lontani da occhi intrusivi, come la sinistra consentì di fare, all’epoca delle sciagurate privatizzazioni.
Al sindacato si devono, giustamente, indicare gli accordi produttivi realizzati negli Stati Uniti, sostenendo che non possono chiedere qui più di quello che è stato stabilito lì. Ma analogo paragone deve essere offerto al fisco, come anche agli evasori fiscali. E sebbene non esista alcun mondo perfetto (fortunatamente), qualche buon esempio di competitività e trasparenza deve essere portato anche alle strutture societarie che traslocano i profitti nei paradisi fiscali, come alle sanzioni altrove erogate per l’uso egoistico e illegale delle informazioni riservate, o la necessità che i rapporti fra credito e impresa non siano improntati alla valorizzazione dei rapporti personali e degli intrecci autoconservativi. La globalizzazione deve valere per gli operai, ma anche per tutti gli altri. L’Italia ha perso competitività sul lato del mercato del lavoro, ma anche su quello dell’innovazione. I posti di lavoro sono poco contendibili, ed è un male, ma lo sono anche le aziende. I posti di lavoro non produttivi non possono essere salvati, ma neanche le società che falliscono.
Un cambio di marcia gioverebbe, e molto, alla politica. Che se avesse visione del futuro spingerebbe in tal senso. Perché lo scandalo non è mai che determinati interessi particolari influiscano su legislatori e governanti, magari anche trionfando, bensì che riescano ad ottenere il risultato senza neanche comparire, agendo nell’ombra e corrompendo la democrazia. Lo scontro d’interessi, con relativa rappresentanza politica dei diversi fronti, è sano. Non lo è la connivenza, l’inciucio, la commistione. Tutte cose che, da noi, sono considerate quasi virtuose, proprio a segnalare un deficit di cultura democratica e di mercato.
Tutto questo non ha alcun significato o intento punitivo, né sul lato operaio né su quello padronale, semmai il contrario: liberarsi del passato serve a far crescere forze e ricchezze nuove, quindi nuove idee e nuove conquiste. Se solo la sinistra lo capisse potrebbe tornare ad essere tale. E al ricordo di Berlinguer farebbe gli scongiuri.

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