In una fresca mattina di settembre Silvio Berlusconi si accinge a pronunciare il discorso sul quale chiederà la fiducia. Esce da Palazzo Chigi a piedi, si sofferma a salutare gli accorsi, si complimenta con una coppia di freschi sposi alludendo, compiaciuto con lei e compartecipe con lui, all’imminente consumazione. Entra alla Camera dei Deputati, si dirige all’emiciclo e prende posto nei banchi del governo. Presiede la seduta Gianfranco Fini, che, dopo le formalità di rito, dice: ha chiesto di parlare il presidente del Consiglio, ne ha facoltà. Berlusconi si gira, vorrebbe dirgli di badare alle sue, di facoltà. Ma passa oltre. Solo non si trattiene dal rivolgersi al deputati, dimenticando il presidente. E dice loro quanto segue.
Onorevoli colleghi, mi rivolgo a voi perché è in quest’Aula che la maggioranza di governo è stata messa in forse, ma mi rivolgo anche agli italiani tutti, giacché non è possibile andare avanti in questo modo. Da sedici anni la maggioranza relativa degli elettori mi esprime la sua fiducia. Le forze politiche che ho fondato e sfondato non c’entrano nulla. Molti italiani credono in me, molti altri credono che sia migliore degli avversari. E questo è un fatto. Cui se ne aggiunge un altro: nel 1994 inventai un trucco, con il quale sventai la sciagura di un governo di sinistra schiavizzato dal giustizialismo e asservito agli interessi economici stranieri, il trucco consisteva nel mettere assieme tutti quelli che non stavano dall’altra parte. Vinsi, come ricorderete. La sinistra copiò il trucco e, al giro successivo, mi fregò. Da allora andiamo avanti così, senza che il governo riesca a governare e senza che vinca mai le elezioni. E’ ora di smetterla.
Torno sul punto cardine: ho la maggioranza relativa dei voti. Si deve proprio essere zucconi per non capire che non si può farmi fuori se non dando un calcio alla democrazia. Eppure ci provano in tutti i modi, a cominciare dall’uso delle inchieste giudiziarie. Colleghi dell’opposizione, ma vi siete bevuti il cervello? Le accuse verosimili, fra quelle che mi vengono rivolte, sono robetta. Volete sapere se tutte le fatture del mio gruppo sono state sempre a posto? E che ne so? Quel che so non ve lo dico, tanto lo sapete. E allora? Ma mi ci vedete, assieme a Fedele Confalonieri, a trattare con la mafia? Fedele neanche capisce quel che dicono, perché non abla l’idioma, mentre io non mi tengo un cecio in bocca! Piantiamola lì, con questa roba non mi fregate, resisterò oltre la morte e continuerò a vincere, perché si vede da lontano che è un’arma sudicia. Lo dico per voi, smettetela.
Così io la smetto di accattare parlamentari. All’inizio è divertente, poi la cosa deprime. Questi hanno famiglie numerose e mi fracassano gli zebedei con richieste d’ogni tipo. La smetto anche perché non sono fesso, ho capito il giochetto: io prendo quelli che si prestano e faccio finta d’essere autonomo dalla scissione finiana, che è pure inutile visto che oggi mi voteranno anche loro, poi mi si fa cadere in un tempo successivo e si sostiene che siccome io cambiai la maggioranza chiunque altro è autorizzato a metterne assieme una raffazzonata, non votata dagli italiani. Non ci casco: chi vuol votare la fiducia la voti, spero siate tanti, ma siccome noi abbiamo un sistema elettorale con il premio di maggioranza (non maggioritario, non ciurlate nel manico, ma con il premio di maggioranza) per cambiare la cosa si deve tornare dagli elettori.
Messa così, però, cari colleghi, non andiamo da nessuna parte. Serve un patto, che unisca quelli fra noi che hanno idee diverse ma conservano un cervello. Il patto deve essere finalizzato a smontare il trucco che inventai. Ve lo dico io: con quel trucco affondiamo. Basta con le coalizioni arlecchinesche, contenenti un Parlamento nel Parlamento, quindi un’opposizione nel governo. Eleggiamo, con il proporzionale, un’Assemblea Costituente. Nel frattempo governiamo Giulio Tremonti ed io. Rassegnatevi. Io mi sono già rassegnato. Se dall’Assemblea uscirà, come credo sarebbe utile, un sistema presidenziale, allora approveremo una legge elettorale maggioritaria, se, invece, si opterà per una sistema parlamentocentrico, allora faremo una legge che lo accompagni. Quel che conta è che ci sia coerenza fra il modello costituzionale e quello elettorale. Attualmente sono scoppiati, in tutti i sensi.
Parlo sul serio: costruiamo assieme la terza Repubblica. Così, in attesa di sapere di chi è la casa monegasca, ci prendiamo uno spazio nei libri di storia, nella sezione dedicata all’evoluzione dello Stato. Non siamo capaci di far le cose minute, per portar via la spazzatura o costruire case ai terremotati siamo costretti a derogare dalle norme generali, potremmo essere capaci di fare quelle grandi. Io ci credo, e voi?
Onorevoli colleghi, chiedo la vostra fiducia su un programma in cinque punti, che non ho esposto per non farvi perdere tempo. Li riassumo nel modo più significativo: uno, due, tre, quattro e cinque. Votate come vi pare, ma ficcatevi in testa che non mi tolgo da torno, che la maggioranza relativa dei voti non è una mia fissazione, ma un paletto imprescindibile, sappiate che non mi farò processare, non mi farò condannare, non mi farò stroncare, e se ci proverete resisterò, accidenti se resisterò, mentre voi vi spappolerete in un assalto destinato all’insuccesso, perché gli italiani sanno già benissimo chi sono, e mi votano. Quindi, fate i bravi, prendete in considerazione l’ipotesi che si possano mettere i tarantolati miei e i tarantolati vostri a prendere il fresco sul balcone, impegnandoci a fare qualche cosa di utile.
Terminato il discorso, ricevute le felicitazioni, Berlusconi resta in attesa. Il presidente Fini, dopo aver scampanellato, annuncia: apro il dibattito. Berlusconi rivolge gli occhi al cielo: questo, proprio, non vuole capire.