Politica

Operai senza politica

Mi metto nei panni degli operai che martedì prossimo, a Pomigliano, dovranno dire sì o no al piano proposto dalla Fiat, già firmato dai sindacati, ad eccezione della Cgil. Mi metto in quei panni e mi ci ritrovo scomodo, perché la scelta non dovrebbe essere solo mia e dei miei colleghi. Se mi regolerò seguendo i miei interessi immediati voterò a favore, come voterà la grande maggioranza, ma se ragionerò in termini generali mi verranno dei dubbi. Da Pomigliano, insomma, è scappata la politica, dopo avere compartecipato al disastro.

Lasciate perdere Walter Veltroni, che persegue il suo unico obiettivo (avere la prima pagina del Corriere della Sera) e dice cose imbarazzanti, come questa: “provo un po’ fastidio per tutti quelli, politici o opinionisti, che gestiscono liberamente il loro tempo di lavoro, che hanno redditi elevati e garantiti, che in questa materia pontificano con il ditino alzato”. Che volete rispondere, a uno che prova fastidio per sé stesso? Ma la questione seria è che, quando il referendum confermerà l’accordo, non si vede perché lo stabilimento Fiat di Pomigliano debba funzionare con regole diverse da quello di Cassino, e neanche perché ci debbano essere delle regole per la Fiat e regole diverse per altri. Sta accadendo, sotto i nostri occhi, quel che da anni paventiamo, ma che ugualmente c’impressiona: la fine del sindacato, lo squagliamento della politica, il tentativo disperato e insensato, per trattenere tessere e voti, di conservare il passato, ci consegna un futuro senza regole relazionali, ci butta in una realtà in cui è il mercato, ovvero la cosa meno democratica che ci sia, a dettare tempi e regole. E non va affatto bene.

Quel passato andava rottamato, non c’è dubbio. E neanche ce n’è circa il sindacato, che, da molti anni, non rappresenta più i lavoratori (solo una minoranza di essi è iscritta, la maggioranza degli iscritti sono pensionati e se togliamo i dipendenti direttamente dalla spesa pubblica, possiamo ben dire che tutti i sindacati messi assieme non rappresentano un bel niente). Così come è evidente che permessi sindacali e scioperi mirati sono stati mezzi per non lavorare. Ma tutto questo non può essere modificato da un accordo aziendale, steso nel timore che gli investimenti vadano a creare posti di lavoro altrove. Voglio essere chiaro: c’è poco da conservare, delle relazioni industriali d’oggi, ma quelle nuove non possono mica essere decise volta per volta, o lasciate al conflitto sociale in zone circoscritte, perché in questo modo se ne perde il governo, preparando il peggio. Un’altra cosa, sia detta con chiarezza: noi possiamo fare la concorrenza alla Cina, ma non sul costo del lavoro.

In attesa di cambiare la Costituzione, con ciascuno che, ogni giorno, scopre un altro articolo da aggiustare, si potrebbe rispettarla, a cominciare dalle leggi, mai fatte, che regolino l’attività sindacale. Si è sempre stati fermi, perché i sindacati si sono sempre opposti, ma dato che quegli organismi non sono rappresentativi e finiscono preda degli estremismi interni, è bene non rimandare oltre. Questo fanno le forze riformiste, non lasciando da soli i lavoratori.

Naturalmente va benissimo la contrattazione decentrata, e vanno bene anche trattamenti salariali differenziati a seconda delle zone in cui ci si trova (le così dette “gabbie salariali”), ma non può esserci diversità di diritti, ivi compreso quello di sciopero. Sono favorevolissimo a una legislazione del lavoro che renda questo mercato assai più permeabile, in entrata e in uscita, rendendo più facili i licenziamenti e le assunzioni, ma questo deve avvenire in modo ragionato e uguale per tutti. Sono favorevole a che l’azienda possa stabilire, autonomamente, il monte ore straordinari di cui ha bisogno, ma questa deve essere regola generale, non locale. Queste sono regole, non equilibri di mercato. Se si procede con il metodo Pomigliano, invece, s’innescano due reazioni a catena: la minoranza locale è spinta su un terreno sempre più estremo, e pericoloso, mentre l’organizzazione di quello stabilimento o si estende a condotta generale o crea una specie di extraterritorialità. Con un’ulteriore aggravante: l’extraterritorialità aziendale s’inscrive in una extraterritorialità fiscale, a sua volta generata da un mercato largamente nero e considerevolmente criminale. Chi controlla, tutto questo? Posto che il sindacato ha qualche milione di colpe, con chi si tratta, con la camorra?

Vedo che, a sinistra, s’è fatta strada la convinzione che l’accordo per Pomigliano è duro, sgradevole, ma senza alternative. Mentre a destra si coglie il lato dinamico della cosa, salutandolo senza molti patemi d’animo. Ho l’impressione, invece, che stiamo assistendo al confrontarsi di due interessi, o, se preferite, di due esigenze: l’industria che deve competere con costi di produzione compatibili con la globalizzazione e gli operai, assieme al tessuto sociale circostante, che non possono perdere una fonte di ricchezza. Manca il terzo soggetto, quello collettivo. Manca la politica. Certo, perché la politica disponibile fa pena, ridotta ad assemblaggio di politicanti, perché la sinistra non è tale e la destra è già tanto se è. Perché manca una cultura delle regole, mentre il diritto viene massacrato da quindici anni, con gran ludibrio di masse beote e beotizzate, incapaci di vedere il punto di caduta. Tutto quello che vi pare, ma questa roba non porta con sé alcun bene.

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