Politica

P3

Non so perché la chiamino P3, forse perché sarebbero stati in tre a fondare questa formidabile associazione segreta, più somigliante alla trama dell’audace banda dei soliti ignoti che al tramare di cospiratori clandestini. La trinità affarista, inoltre, comunicava di continuo e per telefono, a evidenziare l’acutezza complottarda e la prudenza di chi ha molto da nascondere. Se la chiamano a quel modo, invece, per intendere la successione ordinale rispetto alla P2, allora è bene avvertire che, per liquidare la loggia di Licio Gelli, fondata un centinaio d’anni prima della sua nascita, si fece una legge contro le associazioni segrete, salvo doversi accorgere, grazie alle sentenze della Corte di cassazione, che essere iscritti a quel gruppo massonico, pagando le quote o “all’orecchio del gran maestro”, non era un reato. Temo, quindi, che il nome sia l’annuncio di una bufala.

Le gesta dei tre associati, capitanati da Flavio Carboni, sono, a quel che si legge sui giornali, quindi a quel che la procura vuol far trapelare, una collana d’insuccessi, quando non di ridicole cantonate. Resta il fatto, grave, che un veloce incantatore di tonti, come il faccendiere sardo, nonostante la condanna a otto anni e mezzo per la bancarotta del Banco Ambrosiano, continui a trovar clienti. Ciò, già di per sé, riconsegna la misura umana di quella che pretende d’essere la classe dirigente. Chi ha ruoli di rilievo, infatti, dovrebbe sapere che il potere ha poco di nascosto e occulto e molto d’esposto e razionale. Ancora una volta, purtroppo, emerge la fotografia di un mondo popolato da gente che sconosce i problemi e le soluzioni, preferendo concentrarsi sulle persone e sulle relazioni. Un mondo relazionale, perché incapace di elaborare un pensiero sufficiente a sé stesso.

Ci sarà tempo, una volta meglio conosciuti i contorni della vicenda, per concentrarsi sulla sociologia del ceto dirigente, molto più somigliante alla botanica del rampicante che all’etica del governante. Ad oggi, però, quel che maggiormente colpisce è che gli arresti vengono chiesti e disposti senza che si spieghi quali dei tre motivi possano essere invocati e, soprattutto, a quali specifiche condotte criminali si riferiscano. L’impressione, insomma, è che le inchieste nascano sul quasi niente, si alimentino con accuse difficilmente dimostrabili e poi, per rimediare, si sparino arresti che descrivono scenari immaginifici.

Ho l’impressione che uno dei diretti interessati, Carboni, non abbia neanche molto a dispiacersene, visto che l’arresto (dopo altri, numerosi, sfociati in tante assoluzioni) rinverdisce la sua fama di uomo introdotto e capace di avvicinare e condizionare chiunque. Quella stessa fama, insomma, che fece credere a qualcuno, più pollo che faina, che l’uomo sarebbe stato in grado d’indirizzare sentenze della Corte costituzionale o di quella di cassazione, salvo il fatto che entrambe andarono in direzione esattamente opposta. La suggestione è tutto, per chi pratica quell’ardito mestiere, e l’arresto, accipicchia, è suggestivo assai. Cos’altro tramava, quel sardo diabolico? Si domandano oggi in molti. Chi altri è in grado di emularlo in quelle sue funzioni? Molti, e i nomi sono noti, solo che, piuttosto, si tratta in gran parte di finzioni.

Insomma, la mia impressione è che il millantato credito la faccia da padrone. Aggiungo, però, che i circonvenuti, se ci sono, ci fanno una figura peggiore degli incantatori di lombrichi. La domanda decisiva, però, è questa: dov’è, il reato? E la risposta è terribile: lo sapremo fra una decina anni, quando i prosciolti faranno compagnia agli assolti, mentre noi tutti, ancora una volta, saremo stati coinvolti. Nell’imbroglio a testata multipla.

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