Politica

Padrone di Stato

Fa un certo effetto apprendere che il controllo delle società pubbliche sarà esercitato direttamente dalla presidenza del Consiglio. Anche perché il capo del governo che non lo volle, attribuendo questo potere a un soggetto indipendente, si chiamava Benito Mussolini. Correva l’anno 1933, la storia originava da dei fallimenti bancari e dall’allocazione dei loro beni e delle loro partecipazioni, così fu creato l’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale). La storia è dispettosa, nel ripresentare i propri dilemmi e nello stuzzicare con i ricorsi. Non è questa la sede per ripercorrerla, benché sarebbe utile. Osservo solo che Mussolini affidò quel lavoro a un socialista, Alberto Beneduce, che, con Raffaele Mattioli, esercitò un importante e indipendente potere economico, tessé relazioni solide (sua figlia sposò Enrico Cuccia), e protesse molti antifascisti. Chissà che non ci sia anche tale ricordo, consapevole o meno, nel determinare le decisioni odierne. Fa un certo effetto, quindi, ricordare Mussolini come uno che delegò e non comandò in proprio, mentre nostri contemporanei lo superano in volontà accentratrice.

L’annuncio che il cocchiere siederà direttamente a Palazzo Chigi, legato ad una anticipazione sui decreti legislativi figliati dalla riforma della pubblica amministrazione, ha fatto subito supporre che ciò si debba alla sua volontà di scegliere i cavalli. Di fare le nomine, insomma. Non credo sia questo il punto. Tanto più che non cambia molto, dato che un presidente forte esercita comunque un’influenza decisiva, quando si tratta di scegliere i manager di Stato. Ne abbiamo esempi recentissimi. Semmai si solleva il ministero dell’economia e Pier Carlo Padoan dall’onere di ratificare, aggiungendo di condividere. Il problema vero, di cui non mi pare di scorgere consapevolezza, è l’esplodere del conflitto d’interessi.

Il sistema delle partecipazioni statali, smantellato nel 2000, consentiva allo Stato di esercitare il ruolo di regolatore senza entrare in conflitto (almeno formale) con l’essere azionista di molte imprese. L’Iri faceva da separatore. Non sempre efficace, ma la dialettica fra il governo e i vertici delle partecipate era molto più increspata e tormentata di quanto molti credono di sapere. Chiudendo quella struttura si puntava a fare dello Stato solo un regolatore, lasciando al mercato il possesso e la guida delle imprese. Non è andata così. Se quelle partecipazioni, assieme ad altre importanti, furono assegnate al ministero dell’economia, però, ciò non avvenne a caso, ma proprio per non coinvolgere direttamente la sede costituzionalmente preposta all’indirizzo delle politiche governative, la presidenza del Consiglio. Era una soluzione ipocrita, che doveva essere transitoria. S’è confermata ipocrita, ma permanente. Si riprodusse l’equilibrio di prima, ma tutto interno al governo: se i manager capaci e indipendenti restavano tali, subendo solo in parte le pressioni governative, così i ministri dell’economia dotati di forza e autonomia non erano gli esecutori del volere presidenziale, pur restando, ovviamente, parte dello stesso governo.

Ora l’ipocrisia s’appresta a cadere, ma accentrando tutto alla presidenza del Consiglio. Una specie di fanfanismo in presa diretta, con gli amministratori 2.0 che avranno meno autonomia di quanta non ne ebbero i predecessori analogici, all’epoca dell’aretino. Il che, ancora una volta, non si deve al carattere delle persone o alla loro propensione al comando esclusivo, ma a una condizione oggettiva: Amintore Fanfani, anche al culmine del suo potere, aveva un limite nel gioco delle correnti democristiane e nella necessità di formare governi di coalizione; oggi le correnti non esistono, perché manco esistono i partiti, non esiste il pisello perché non c’è più il baccello, e con la riforma costituzionale saranno cancellati anche i governi di coalizione. L’accentramento sarà fenomenale. Ma non meno luminoso il conflitto d’interessi. L’Italia sta in piedi grazie a chi produce ed esporta, ma sarà controllata da chi ha in mano le redini di un sistema da socialismo reale. Scommetto che ad Arcore serpeggerà una certa invidia. Ma è lo stupore di Predappio a inquietare.

Pubblicato da Libero

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