Non esiste democrazia senza partiti i quali hanno passato lustri a a farsi concorrenza diffondendo veleno contro i partiti (degli altri).
Non è questione di sorelle, fratelli, parenti e amici. Il tema è quello dei partiti politici, che hanno passato lustri a farsi concorrenza diffondendo veleno contro i partiti (degli altri). La pretesa era quella di essere il solo partito contro la partitocrazia, con il risultato di avere generato una spartitocrazia senza partiti politici (degni di questo nome).
Non esiste democrazia senza partiti. La Costituzione lo ricorda all’articolo 49 dove unisce il «diritto di associarsi liberamente in partiti» al «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». La vita dei partiti, però, prima non la si è regolata e poi è stata demonizzata. Creando dei mostri. Tanto per restare all’attualità, l’articolo 98 stabilisce che «Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero», ciò per la semplice ragione che ci rappresentano tutti. Ma quella legge non è mai stata fatta e, dopo avere visto magistrati che fanno i politici e poi tornano a fare i magistrati, ora c’è pure un militare che si candida e parrebbe voler fondare un partito. Abominevole ma reale, grazie a quella mancata regolazione.
Fratelli d’Italia ha un capo riconosciuto, che al momento si trova a Palazzo Chigi. In occasione di quel passaggio ha ritenuto di affidare il partito, con funzioni vicarie, alla sorella. Legittimo, purché piaccia ai parlamentari e ai militanti di quel partito. Quel vicario si trova a esercitare un importante ruolo pubblico da privato cittadino. Considerato che, seguendo i poco trasparenti venti dell’antipartitismo, s’è preteso di negare la funzione dei partiti fino a istituire il reato di “traffico d’influenze” (ovvero l’adoperarsi affinché Tizio o Caia vadano a ricoprire ruoli in aziende pubbliche) e considerato anche che non si conosce altro modo per nominare vertici di società il cui azionista è lo Stato e quindi la politica, quel privato cittadino corre dei rischi enormi per il solo fatto di trovarsi in quel posto.
Quando ancora esisteva un criterio per tradurre il voto degli elettori non solo nella composizione dei governi ma anche nell’amministrazione del potere derivante dalle nomine nelle aziende pubbliche, si provò a portare i segretari dei partiti (che erano divenuti tali vincendo il congresso del loro partito e che erano sempre insidiati sia dalle opposizioni interne che dalla concorrenza esterna) direttamente dentro la responsabilità di governo. Questo era il ‘direttorio’ che accompagnò la stagione dei pentapartiti. Ma la pressoché totalità dei partiti oggi esistenti si è affermata sparando a palle incatenate contro quel sistema.
Il risultato non è stata la cancellazione delle spartizioni ma i segretari che fanno i vice presidenti e i negoziati che si fanno con il vicario, con tanti saluti al «metodo democratico». Questo pericoloso vuoto regolatorio s’è accompagnato alla lunga e mefitica stagione del giustizialismo, talché chi lamenta oggi gli attacchi alla sorellanza ne fu protagonista quando si trattò di figliolanza o altro legame. Diciamo che non ha le carte propriamente in regola. Il che non toglie che il problema sia reale e, quindi, se i giornali scrivono che Sempronio siede a un tavolo ove si fanno le nomine Rai – che in quel modo si fanno da decenni – un qualsiasi procuratore può leggerci una notizia di reato. Con quel che segue.
Per uscirne si dovrebbe avere assai meno da spartirsi, la Rai dovrebbe smettere d’essere la televisione di Stato e il perimetro della mano pubblica in economia dovrebbe essere assai ridotto. Vasto programma, predicato da praticamente nessuno. Allora, quanto meno, si dovrebbe dismettere l’ipocrisia e dare delle regole alla spartitocrazia. Facendolo, però, molti o tutti smentirebbero sé stessi.
Verrebbe da dire «Chi è causa del suo mal pianga sé stesso». Se non fosse che non pagano i partitanti, ma tutti noi.
Davide Giacalone, La Ragione 20 agosto 2024