L’ingresso di Silvio Berlusconi nella scena politica ha posto in primo piano il tema del conflitto d’interessi.
A questo tema il senatore Stefano Passigli, con un passato repubblicano ma eletto nelle liste dei democratici di sinistra, ha dedicato gran parte della sua attività parlamentare e dedica oggi un libro (“Democrazia e conflitto di interessi. Il caso italiano”, edito da Ponte alla Grazie). Un libro interessante, di cui, come dirò, non condivido la gran parte, ma che ha il pregio di porre con chiarezza un problema al quale non è lecito sfuggire.
La tesi di Passigli è questa: il conflitto d’interessi non attiene alla possibilità che Berlusconi approfitti della posizione in cui si è venuto a trovare per arricchire ancor più le sue imprese, o, meglio, l’aspetto “economico-patrimoniale” è secondario, prevalente, invece, è il rischio che egli approfitti della sua forza mediatica per manipolare l’opinione pubblica: la sua vittoria elettorale, la sua forza mediatica ed il suo governo rischiano di trasformare la democrazia italiana in “un regime plebiscitario fondato su di uno spurio consenso di massa sollecitato dai media”. Una tesi che l’autore sviluppa pezzo per pezzo e che qui è utile esaminare con attenzione.
Rispetto ai rapporti di tipo privatistico, si sostiene, il conflitto d’interessi pubblico ha una complicazione ed un’aggravante derivante dal fatto che mentre i primi sono soggetti a revoca il secondo no. E questa è una prima inesattezza: il mandato parlamentare è senza vincolo (ed è un bene che sia così) e non può essere revocato in ogni momento (ed anche questo è un bene), ma è revocabile a scadenza. Si chiamano elezioni. L’elettore, se del caso, si pente della scelta fatta in passato e manda a casa la causa della sua insoddisfazione. E’ bene che non possa farlo dopo un mese, altrimenti non si governerebbe mai, ma a scadenza può farlo.
Passigli obietterebbe che questa evidenza non risolve il problema giacché: 1. i media manipolano l’opinione pubblica e, pertanto, manomettono il libero formarsi delle opinioni; 2. l’esercizio del potere politico deve sempre avvenire “in funzione dell’interesse generale”. Non mi convince, perché: a. la capacità manipolativa dei media permane anche se il loro proprietario non si candida alle elezioni, il che, in termini sistemici, rende irrisolvibile il problema e la candidatura, a quel punto, lungi dall’essere un’aggravante è quasi una manifestazione di trasparenza; b. il professore (Passigli ha a lungo insegnato scienza della politica) sa bene che la definizione di “interesse generale” è complicata e pericolosa, che la storia ci suggerisce di diffidare di quanti se ne credono esclusivi interpreti, e che, alla fine, è bene accontentarsi di interessi di parte sottoposti al giudizio degli elettori.
Naturalmente ci sono interessi smaccatamente personali od aziendali che fanno a pugni con il riconoscibile interesse generale, vale a dire quello espresso dalla maggioranza degli elettori e, per loro, dalla maggioranza parlamentare. Forse Passigli ricorda che quando l’occidente democratico reagì con l’embargo contro la Libia (che aveva cercato di bombardare anche l’Italia) capitò che un sottosegretario agli esteri volle, unico occidentale, presenziare alle sfilate tripoline di truppe allora considerate terroriste. Quel sottosegretario, Susanna Agnelli, militava (con Passigli e con chi scrive) nelle fila repubblicane ed era parte di una famiglia la cui azienda, la Fiat, aveva il leader libico fra i suoi principali azionisti. Si disse che andava “a titolo personale”. Allora non ci furono reazioni apprezzabili, ma segnalo l’episodio all’ottimo autore perché ne faccia tesoro in un prossimo intervento e se ne giovi quale evidente esempio d’indiscutibile conflitto d’interessi (così eviterà, come fa a pagina 57, di citare la signora Agnelli per casi ipotetici).
Ma torno al tema della manipolazione, quanto mai interessante. Non c’è biblioteca, per quanto vasta e multilingue che sia, che contenga un qualche serio testo nel quale si sostenga che esiste una modalità asettica ed obiettiva di fornire le informazioni. L’influenzare, che è la versione buona del manipolare, l’opinione pubblica è tutt’uno con l’informare. Inutile dilungarsi su quest’evidenza. Le democrazie hanno trovato la strada che conduce al non rendere patologica questa naturale tendenza: il pluralismo delle fonti d’informazione. Non se ne conosce altra, non ce n’è altra. In Italia la storia ci ha consegnato editori che sono tutti non puri, vale a dire che nessuno di essi si limita a fare l’editore, ma tutti hanno interessi industriali estranei all’editoria. Già questo è un brutto difetto.
Passigli, però, commette un gravissimo errore nel far credere al lettore (manipolazione o non conoscenza dei fatti?) che l’azienda Mediaset venga da un passato di “sostanziale illegittimità”. Errore grave per il professore, che non cita pezze d’appoggio, che dimentica il contenuto delle sentenze della Corte Costituzionale, e dimentica anche un paio di fondamentali testi vergati da un suo amico. Errore grave per il senatore Passigli, che puntando su un’inesistente illegittimità perde di vista un elemento assolutamente fondamentale: quelle televisioni introdussero il pluralismo nell’informazione televisiva nazionale, prima di allora nelle mani di un monopolio statale. Se avesse avuto meno fretta di cedere al basso ventre della polemica di parte si sarebbe accorto che quell’argomento poteva essere utilizzato in modo assai più efficace per dimostrare la tesi che più gli sta a cuore: la pericolosità del conflitto d’interessi.
Torno in chiusura su questo punto, ma ancora c’è da sviscerare il tema manipolazione. Si rifletta sui dati oggettivi: all’epoca del referendum contro il divorzio Amintore Fanfani poté disporre, e ne dispose, dell’intera informazione televisiva, allora concentrata nella Rai di Bernabei. Perse. Che significa? che Bernabei non sapeva fare il suo mestiere? Non lo direi mai, che altrimenti Veltroni si offende. No, significa che uno strumento come la televisione condiziona l’opinione pubblica a patto di esserne condizionata, a patto di rifletterne i gusti ed i desideri, altrimenti non penetra nella carni. La televisione commerciale, poi, se ha un difetto (e ce l’ha) è proprio quello di aggregare pubblico fornendo solo (o prevalentemente) quel che il pubblico vuol vedere e sentire. Certo, si commettono degli errori, inseguendo l’audience, magari si rinuncia al nuovo e si subisce la concorrenza di chi sia più sensibile e coraggioso, ma ciò non toglie che quello è il mestiere della televisione. Passigli si mostra scandalizzato per il fatto che la televisione si rivolga al pubblico con “appelli emotivi”, ma dedichi meno attenzione alla politica e più attenzione al prodotto televisivo per eccellenza, quello che i francesi chiamano la Pub: cosa crede che sia il tentativo di vendere un assorbente igienico promettendo a chi lo usa d’essere libera e bella? Cosa crede che siano le piazze mediatiche delle trasmissioni politiche che tanto piacquero a quella sinistra che innalza il vessillo dell’antiberlusconismo? E, fuori dalla televisione, cosa crede che siano i manifesti sei per tre di Rutelli e Berlusconi? C’est la Pub, mon ami.
Mi arrabbio, mi arrabbio tanto quando leggo che “l’opinione pubblica, condizionata dal martellamento dei media televisivi, è stata a poco a poco convinta che la magistratura sia rossa ?”, che si è assistito “ad una precisa strategia di delegittimazione di uno dei più fondamentali poteri dello stato”. E non mi arrabbio solo perché “più fondamentale” in bocca ad un professore spiega l’analfabetismo di ritorno, ma perché Passigli deve essersi assopito in quegli anni, e deve non essersi accorto che la presunta rivoluzione di mani pulite (reazione, come altrove argomentai) ha un figlio diretto e legittimo: il politico Silvio Berlusconi. Il manipulitismo giustizialista è quanto di più lontano ci sia dal nutrimento naturale della democrazia, eppure era un prodotto straordinariamente coincidente con gli umori diffusi, ed in quanto tale fu venduto alla grande dalle tv, e le tv Fininvest furono quelle che lo vendettero meglio e più intensamente. Ciò fece inorridire le coscienze democratiche, fece orrore al diritto ed ai diritti, ma, di sicuro, non si capisce un fico secco di quel che avvenne dopo se non si capisce quale ne fu il prologo. Allora, Passigli, quella pagina dove la mettiamo, nel faldone delle manipolazioni, od in quello delle distrazioni, o, ancora, in quello delle anomalie legate a quel sistema d’informazione? E se di questo non si accorse, se a questo non si oppose, a fronte di morti ammazzati e del genocidio politico, come fa il politico di oggi a partire dall’ultima puntata per interpretare una storia prima ignorata? Si torni a riflettere, si torni ad esaminare quegli anni, e vi si troveranno risposte ragionevoli a situazioni apparentemente irragionevoli (magari si chiarirà anche il vero colore delle toghe, che non son rosse, ma nere, al di là di ogni ragionevole dubbio, anche quando indossate da cuori rossi).
Il sistema democratico, nota Passigli, si regge sulla “fiducia nella razionalità umana”, e, quindi nel common man, che, altrimenti, si dovrebbe tornare al voto per censo o per titolo di studio (parametri che di razionale hanno pochino). Ma tale caratteristica non può essere riposta nel common man e non essere richiesta a chi ne è delegato, e non è razionale pensare che il momento in cui si vive sia il momento zero, l’attimo iniziale di una storia che, invece, si dipana nel passato ed influisce sul presente.
Citando Sartori l’autore ricorda che la maggioranza degli elettori premia, di fatto, una delle minoranze in competizione, e che sono queste minoranze a portare il peso della funzione di governo. Questa sartoriana definizione non può esser presa ed assunta come vera, ma è vero, a me sembra, che si avvicini molto a certi periodi della vita democratica. Non a tutti. Già, perché la televisione analogica e diffusiva, quella che guardiamo nelle nostre case, è il regno delle maggioranze, si rivolge alle maggioranze, viene orientata dalle ed orienta le maggioranze. Essa rende possibile un prodotto di marketing politico che, in passato, ha avuto altre fonti ed altri sbocchi, rende praticabile la via di un leader, o di un gruppo che diviene interprete dei gusti e delle idee della maggioranza. E’ un errore credere, sol per questa ragione, che la televisione sia pericolosa, o nociva. Chi lo pensa è attanagliato da un pregiudizio preindustriale. Ma è vero che quel genere di mezzo deve, per questa ragione, essere sottoposto a particolari vincoli antitrust. Guai, insomma, a rinunciare a tutto il pluralismo possibile.
Ebbene, il senatore Passigli dimentica con troppa disinvoltura che la via di un rigido antitrust è stata sempre sbarrata dalla sinistra. Si, lo so che la propaganda dice il contrario, ma, professore, la carta canta. Alla fine degli anni ottanta era possibile introdurre un limite antitrust a due reti per soggetto, chi si oppose? Berlusconi? No, non ne ebbe il tempo, perché si oppose prima Veltroni. La Maccanico non è, come lei erroneamente scrive, simile alla Mammì, per il semplice motivo che la prima fa cadere i vincoli antitrust che più rigidamente vincolavano l’espansione dei soggetti più forti nel mondo della trasmissione digitale (per il resto c’è ancora la Mammì, che secondo alcuni nacque vecchia, ma che gli stessi non sono ancora riusciti a cambiare). Ora, detesto le volgarità e quindi eviterò di sostenere che vi era un conflitto d’interessi in chi aveva lottizzato la Rai e, al tempo stesso, ne bloccava e ne blocca il ridimensionamento; ma sono sicuro che un uomo di buoni studi non farà fatica a comprendere che i monopoli si abbattono prima dal lato pubblico per poi aggredirli da quello privato. Il contrario si chiama socialismo, o comunismo e, mi creda, professore, non son termini che destino in noi alcun imbarazzo. Solo, ci sembrano ampiamente condannati dalla storia.
Mille altre osservazioni vorrei fare, ma mi accorgo di avere scritto molto e mi resta poco spazio per quel che è forse più importante: si, professor senatore, il tema è importante ed il problema va risolto; la vittoria di Berlusconi, alle ultime elezioni, porta nelle stesse mani, da una parte come proprietario e dall’altra come leader della maggioranza, il controllo di tutte e sei le reti nazionali italiane. Troppo, e troppo pericoloso. Ma quale crede che possa essere, la soluzione? Crede che si possa avvicinarvisi dicendo sfondoni sulla presunta illegittimità di Mediaset; o strizzando l’occhio alle accuse penali rivolte al presidente del consiglio; o accusandolo di utilizzare le sei reti a scopo di propaganda personale? Ecco, questi sono tre modi per aver torto e per non risolvere niente. A quando una bella battaglia per la privatizzazione della Rai? A quando una legge antitrust che stimoli la diffusione della tecnologia digitale? A quando un ragionamento sul conflitto d’interessi non fatto tenendosi un pubblico ministero ad un lato ed un imprenditore televisivo all’altro, sui banchi parlamentari? A quando, insomma, una sinistra delle idee e non dei luoghi comuni?
Comprate il libro, leggetelo. Chi pensa e scrive (ma la prossima volta si trovi un intervistatore un friccico più dialettico, meno estatico-accondiscendente e che non gli dia del tu) merita sempre più attenzione di chi evita tali pericolosi esercizi.