Politica

Per Nassiriya la politica sotto accusa

Neanche quella militare, di giustizia, riesce a tenere il ritmo della ragionevolezza. Mentre la politica mostra il suo scarso spessore. La strage di Nassiriya è del novembre 2003 e la procura militare ha indagato per più di tre anni. Troppi, un tempo insensatamente lungo.

L’idea, poi, di utilizzare come rilevante la deposizione resa da Abu Omar Al Kurdi, che della strage fu regista, equivale a dargli la possibilità di continuare l’attività terroristica, di continuare a farci saltare per aria. Questo genere d’inchieste deve chiudersi in pochi mesi, meglio ancora se in poche settimane, accertando i fatti con i militari italiani, individuando eventuali mancanze e procedendo spediti verso il giudizio. A passo svelto. Farsi spiegare dai terroristi che si era troppo poco difesi, e dopo tre anni e mezzo chiedere il rinvio a giudizio di tre militari, fra i quali anche chi oggi si trova il Afghanistan, è inaccettabile.
Constatato che, in Italia, tutto quello che si riferisce alla giustizia sembra essere amministrato per ottenere il contrario, penso che i governanti, di allora e di oggi, dovrebbero avere la dignità di dire: allora vogliamo essere processati anche noi. Sicuro, perché se dei militari vanno in guerra e s’accampano in un quartiere cittadino, a contatto di gomito con il nemico, sono degli incapaci. E, difatti, il resto della truppa italiana era accampato fuori città, nel deserto e con adeguate difese. Ma se si mandano i militari in missione di pace, si nega che ci sia la guerra, e li si spinge ad aiutare la popolazione civile, allora sarà difficile una contemporanea blindatura che complicherebbe anziché semplificare la vita di quella gente. Vale per l’Iraq, per l’Afghanistan, il Libano: quando il nemico non è un esercito regolare, ma un gregge pronto a crepare per obbedire ad un’autorità religiosa la missione di pace consiste nel farlo fuori, nel disarmarlo, e siccome i terroristi si mescolano ai civili questo aumenta i rischi. La responsabilità operativa è dei militari, ma non si può scaricare su di loro la natura politica, quindi anche l’equivoco, della missione.
Usiamo la parola “pace” per andare in “guerra”. E’ una scelta politica. Per meritare rispetto occorre, ora, che diversi si alzino a dire: allora processate noi, o, meglio, non processate nessuno.

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