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Pestando

Pestando

Si sta pestando quel che resta della credibilità politica e giudiziaria. Non si sente il profumo di basilico ma il tanfo, che non origina dalla corruzione della vita politica e amministrativa – perché ci ostiniamo a ritenere che la Costituzione e le leggi abbiano un valore e che prima del giudizio esista solo il pregiudizio – ma dall’oltraggio al diritto e dalla cieca viltà di tanta politica.

Guido Crosetto, ministro della Difesa, si è attenuto all’evidenza: «Toti non può governare dagli arresti domiciliari», sicché ritiene che si dimetterà, come fecero due esponenti della sinistra (Bassolino e Pittella) che poi furono assolti. Sembra lapalissiano, invece è il riassunto della mostruosità perché consegna non alla giustizia ma alle Procure il potere di stabilire chi può governare e chi no. Nel secondo caso lo si mette agli arresti domiciliari, si constata che non può andare avanti, si incassano le dimissioni, poi lo si libera e infine lo si assolve. Con tanti e cari saluti allo Stato di diritto.

Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, si mostra equanime e afferma che prima di trarre conclusioni sarà il caso di ascoltare quel che l’indagato ha da dire a sua discolpa. Dimentichi che tocca all’accusa dimostrare la colpevolezza e non alla difesa l’innocenza, oramai è dato per assodato che le inchieste siano un reality show: il pubblico segue le puntate ed esprime un giudizio. L’idea che nella fase delle indagini preliminari (specie se sono state prese misure cautelari) l’indagato è un cittadino sovrastato da un potere enorme – sicché ha il diritto di non rispondere e ha diritto a che le sue risposte non siano rese pubbliche altro che nel momento in cui si troverà davanti a un giudice terzo, quindi non più in una condizione di inferiorità – è stata degradata a idea per cavillosi compulsatori di codicilli. Invece è il fondamento della civiltà e del diritto.

Intanto i mezzi d’informazione diffondono la notizia che il Tale indagato «non risponde», come fosse una colpa; poi riportano le parole del finanziatore arrestato: «Li pagavo tutti». Senza che si osservi: finanziare la politica non è un reato, dare lecitamente denaro a chi pensi difenderà meglio i tuoi interessi è parte stessa della democrazia, ma se affermi di darlo a tutti adotti una strana linea difensiva che finisce con il cancellare il valore democratico dei finanziamenti che hai elargito e li colloca nel vasto mondo dell’ammanicamento a futura memoria. Per non dire dei candidati che accettano soldi da chi sanno aver finanziato anche i loro avversari, evidentemente convinti che olet si riferisca alla lubrificazione che la pecunia comporta.

Non contenti di pestare la credibilità di inquisiti e inquirenti, non contenti di strillazzare l’incitazione alle dimissioni (come se il capro espiatorio potesse riscattare il caprino ostinarsi a usare le inchieste gli uni contro gli altri), non contenti di ciò si manda in onda il reality questurino, recapitandolo nelle case dei contribuenti europei che con i loro versamenti finanziano l’indebitamento comune a basso tasso d’interesse, di cui l’Italia è la prima beneficiaria. Se a quello stesso contribuente fai sapere che – nel solo 2023 – delle 258 indagini aperte per frodi relative all’uso di quei soldi ben 200 riguardano l’Italia (dove i fondi stanziati sono stati solo assai parzialmente utilizzati e dove taluni soggetti erogatori manco hanno controllato a chi li stessero dando) e se gli ricordi che abbiamo fatto un buco spaventoso nel bilancio per finanziare il rifacimento di poche case possedute da facoltosi, è ragionevole supporre che chieda ai propri governanti di fermare l’andazzo o trasferirsi in Italia.

Questo è il danno prodotto pestando nel mortaio dell’accusa senza giustizia. E ci manca solo che faccia da freno al Pnrr. Tutto ciò dovrebbe indurre l’intero mondo politico a smetterla con la commedia dell’indignazione alternata e ad affrontare il dramma della giustizia negata. Sia nel condannare che nell’assolvere.

Davide Giacalone, La Ragione 16 mag 2024

www.laragione.eu

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