Politica

Piogge acide

Con 8 miliardi e mezzo, in 12 mesi, hanno raddoppiato il canale di Suez. Sulla testa del Mezzogiorno d’Italia, da dieci anni, volteggiano 100 miliardi, eppure l’autostrada Salerno – Reggio Calabria è un cantiere aperto dal secolo scorso. Nessuno creda che questo capiti per inefficienza o scarsa organizzazione. Sarebbe ingenuo. Capita per una ragione assai più strutturale e razionale: la redditività del canale di Suez è data dalla sua operatività, quello della Salerno – Reggio Calabria dalla sua costruzione. Nel primo caso, per guadagnare, si deve completare l’opera. Nel secondo si deve costruirla all’infinito. Non mancano i finanziamenti per finire i lavori, sono i finanziamenti a renderli infiniti. Questa è la dannazione del Sud, sicché sperare di risolverla con altri finanziamenti significa avere capito un tubo di come stanno le cose.

Il Sud ha sete d’investimenti. Ma quei soldi cadono a pioggia per alimentare spesa che non crea ricchezza. Sono piogge acide e desertificanti. Il guaio sono governanti, diversi nel tempo, che innanzi a quel deserto restano sgomenti, ma incapaci di capire, sicché suppongono di compiacere gli astanti facendo la danza della pioggia. Nel migliore dei casi sono circensi scomposti. Nel peggiore ci riescono, creando ulteriore deserto.

Il cruccio nazionale non è che non si sappia investire, che la rendita del non finire i lavori sia più alta di quella ricavabile dalla gestione delle infrastrutture, il cruccio è che i fondi stanziati o stanziabili non siano spesi. Daremo i soldi a chi è capace di spenderli, dicono dal governo, e chissà se si rendono conto di quali professionalità e competenze hanno mosso, con quell’inno alla pecunia che locupleterà chi è abile nel farla scorrere. Il meccanismo, oramai, funziona al contrario: non un buon progetto, che cerca finanziamenti, ma finanziamenti che cercano un progetto, altrimenti si perdono. La selezione meritocratica c’è, ma capovolta: va avanti e spende chi trova la scusa, non l’idea produttiva. Così altra acqua all’arsenico pioverà ad avvelenare i campi.

E, del resto, che vi aspettate? A Taranto festeggiano l’inizio della riaccensione dell’altoforno 1, che, se va bene, una volta a regime, potrà riportare la produzione al 60% di quella che era. La proprietà legittima è stata espropriata e accusata di disastro ambientale, ma ancora nessuno ha dimostrato che sia stata violata una sola delle norme esistenti e delle condizioni previste dalle autorizzazioni ambientali. L’ultima era del 2011, sicché non v’era sentore di quel che nel 2012 tutti dicevano di sapere e vedere. Ci sono voluti cinque decreti legge, per provare a non chiudere l’Ilva e non farla chiudere dalla magistratura, che con tre sequestri (tutti rivisti in sede giurisdizionale) ha provato a spegnerla. Ma nessuno ha rivolto lo sguardo verso municipalità che hanno consentito alla città di circondare l’acciaieria. Sapremo solo fra anni chi è colpevole di cosa. Se lo sapremo. Nel frattempo l’impresa è stata tramortita e portata via alla proprietà.

Guardate la Salerno- Reggio Calabria e guardate l’Ilva, la cui privatizzazione, nel 1995, andò mille volte meglio di quella di Telecom Italia. Guardatele e immaginate quali imprese vengono selezionate in un simile cimento, o dite se ha senso rischiare soldi privati dove il pubblico organizza espropri. In tutti e due i casi sono le regole ad avere fallito, mentre la ricchezza arride a chi di quel fallimento gode.

I soldi a pioggia non sono la soluzione, sono il problema. C’è bisogno di tanto Stato, dove lo Stato da il peggio di sé, nella giustizia. E c’è bisogno di tanta liberazione dalla spesa statale, giacché sovverte i valori d’impresa e quelli morali. Ma la classe dirigente meridionale, come quella nazionale, è prevalentemente composta da onesti pressapochisti, campati da generazioni con la spesa pubblica improduttiva, e disonesti assai lesti, da generazioni arricchiti con la spesa per lo sviluppo. Cos’abbia sviluppato si può vederlo. A occhio nudo.

Pubblicato da Libero

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