Più che una rivoluzione è un golpe, più che la piazza è l’esercito a prendere il potere in Egitto. Nulla di nuovo, da questo punto di vista, perché è l’esercito la colonna portante della Repubblica egiziana, fin dall’inizio: fu militare il golpe che, nel 1952, depose il re, Faruq I; militare il primo presidente della Repubblica, Muhammad Nagib, presto deposto, dopo due anni, da altri militari, condannato a morte e poi “graziato” con l’ergastolo; era un militare Gamal Abd el-Nasser, uomo forte del regime nazionalista, membro di quei “Liberi Ufficiali” di cui facevano parte anche Anwar al-Sadat, suo successore, poi ucciso dai militari, e Hosni Mubarak, il cui governo s’è esaurito da poche ore, passando il potere nelle mani di Omar Suleiman, già capo dei servizi segreti militari, poi di quelli civili, infine vice presidente. Certo, era militare anche Mustafa Kemal Ataturk, padre della Turchia moderna, occidentalizzata e deislamizzata, prese anche lui il potere deponendo un monarca (Maometto VI), ma non fu certo la piazza reclamante democrazia a propiziare questa storia e, anzi, furono le repressioni della piazza a tenere la Turchia nell’ambito della Nato e lontano dalle tentazioni islamiste. Da quando la democrazia ha ripreso a funzionare, in quel Paese, le cose sono cambiate e, non a caso, governa un partito islamico (con Recep Tayyip Erdogan) e sono ricomparsi i veli.
La diagnosi della Casa Bianca è stata evidente fin dal primo momento: Mubarak è perso, non possiamo e non intendiamo sostenerlo, della democrazia non ci fidiamo, quindi che il potere ripassi nelle mani delle forze armate. Solo che anche quelle non sono un corpo uniforme e indistinto e, come abbiamo visto, in realtà non lo avevano mai perso. Semmai è stato Mubarak a sperimentare l’ingresso di personalità non militari al governo, puntando molto sullo sviluppo economico, che è stato imponente negli ultimi anni. Ciò non toglie che l’Egitto è sempre un Paese con forti squilibri interni, che la crescita della ricchezza ha portato consapevolezza in ceti e generazioni che hanno potuto vedere e vivere le piacevolezze dello stile occidentale. Ma neanche toglie che Mubarak non cade di certo per avere affamato il suo popolo e fra i suoi nemici ci sono non solo i nemici della democrazia, ma quelli della più elementare convivenza civile: i Fratelli Mussulmani.
Se qualcuno crede che i militari rimaneggeranno il potere per dare soddisfazioni e felicità alla piazza, per offrire più libertà di stampa e organizzazione politica, per celebrare elezioni più aperte e regolari, è bene che torni a leggere i libri delle favole. Era Mubarak, con tutti i limiti del rais insediato al potere da troppo tempo, ad essersi incamminato su quella strada. Ed è stato travolto. Il punto determinante, ora, è se i militari che succedono al militare intendono ribaltare le alleanze, come Sadat fece succedendo a Nasser. Il secondo era vicino ai sovietici, finanziatore del terrorismo palestinese e nemico d’Israele. Il primo (che, come anche Mubarak, prese parte alla guerra contro Israele) decise invece di firmare la pace e avvicinarsi agli Stati Uniti. Posizione poi mantenuta dal successore. Se qualche cosa dovesse cambiare, in questo difficile equilibrio, ci si prepari alla guerra. Se l’asse fra iraniani e siriani dovesse prevalere sui desideri dei sauditi e degli occidentali, allora il Medio Oriente riprenderà fuoco, scavando trincee in Libano e spingendo Israele ad attaccare.
Barak Obama, se le cose hanno un senso, s’è reso garante del contrario: lasciamo che i militari sbrighino le faccende egiziane, ma gli equilibri dell’area restano immutati, quindi non compromessa la sicurezza d’Israele. Ciò spiega perché gli israeliani sottolineano il pericolo islamico, ma non calcano i toni dell’allarme. Ciò, anche, la dice lunga su quanto terreno è stato perso dall’occidente, che appena ieri deponeva Saddam Hussein e spingeva i siriani a differenziarsi, per quanto possibile, dagli iraniani. Se i militari porteranno l’Egitto a somigliare al Pakistan, come sostiene Fareed Zakaria, avremo di che dolercene, visto quello che stiamo vivendo in Afghanistan.
Noi, da questa parte del mondo, oltre a guardare con curiosità chi plaude alla piazza del Cairo senza perder tempo a studiarne la storia, possiamo fissare un punto: Israele non è il perno attorno a cui gira la storia egiziana, ma è al centro dei nostri interessi geostrategici, è il tema fulcro di alleanze che assicurano la nostra (relativa) sicurezza. Quel che dovesse muoversi contro Israele sarebbe diretto contro di noi.