Politica

Politica quirinalizia

Con una lettera al presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, il Presidente della Repubblica interviene nel vivo del dibattito legislativo. Le sue osservazioni sono interessanti, muovendosi a cavallo fra la lettera costituzionale e la prassi fin qui seguita. Egli avverte l’anomalia del gesto che compie, sa bene che non ha riferimenti nella Costituzione, al punto da sentire il bisogno di prendere le distanze da quel che scrive: “è mia intenzione rimanere estraneo nel corso dell’esame al merito di decisioni delle camere …”. Ma è un fatto che interviene addirittura nel corso dei lavori di una commissione. Ed è un siluro, grosso, lanciato contro lo scudo.

Il rilievo presidenziale è preciso: con l’emendamento, presentato da Carlo Vizzini, destinatario della lettera, si stabilisce che il Presidente della Repubblica può essere consegnato al giudice penale se lo decide la maggioranza semplice dei parlamentari, mentre, sostiene Napolitano, la Costituzione oggi lo tutela maggiormente, prevedendo la maggioranza assoluta del Parlamento in seduta congiunta. Il timore presidenziale è che questo diminuisca l’autonomia del Quirinale. Una tesi singolare, perché l’articolo 90 della Costituzione stabilisce che il Presidente è irresponsabile per tutti gli “atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni”, mentre può essere messo in stato d’accusa, con la modalità appena ricordata, solo per “alto tradimento o per attentato alla Costituzione”. E tale guarentigia non si tocca.

L’emendamento allo scudo (ex lodo Alfano) si riferisce, però, ad una cosa diversa, ovvero all’ipotesi che sia un magistrato penale a contestare qualche cosa al Presidente, e non per quanto fatto nell’esercizio delle funzioni, ma per ogni altra ipotesi prevista dal codice penale. Per queste fattispecie, insomma, oggi il Presidente è scoperto, mentre domani sarebbe protetto, sebbene con il voto di una maggioranza meno ampia. Occorre subito sottolineare che il caso è, attualmente, del tutto teorico, perché nessun magistrato contesta a Napolitano alcunché. Ma domani la cosa potrebbe essere meno scolastica, ove mai al Quirinale giungesse chi si trova in una condizione diversa.

Come ci si sarebbe regolati, oggi, in un caso di quel tipo? Semplicemente non lo si è neanche preso in considerazione. O, meglio, la partita veniva giocata sul terreno politico. Giorgio Napolitano ricorderà di essere stato parlamentare quando il suo partito chiese le dimissioni di Giovanni Leone, contro cui non poteva accamparsi né il tradimento né l’attentato alla Costituzione, ma gli si contestavano comportamenti penalmente rilevanti. Esattamente il caso previsto dall’attuale versione dello scudo. E non solo le chiesero, ma anche le ottennero, sebbene poi si dimostrò che Leone era estraneo a ogni ipotesi di reato. Quindi, per essere precisi, non è che manchi il precedente (sempre ricercato dai giuristi a corto d’idee), è che quello esistente è, al tempo stesso, imbarazzante e illuminante.

La lettera di Napolitano, comunque, mette in luce un elemento che qui avevamo già rilevato, solitari: nello scudo si mettono assieme soggetti istituzionali che non hanno nulla in comune fra loro, e il presidente del Consiglio ha caratteristiche simili a quelle dei ministri, quindi sfugge il discrimine in base al quale taluni siano scudati e altri snudati. A me è sembrato un elemento di debolezza costituzionale. Le cattedre hanno taciuto, o urlacchiato appresso alla propaganda. Ora è il più alto magistero a illuminare a giorno la faccenda, rendendola ineludibile.

Il Presidente della Repubblica, infine, inserisce nella sua lettera una singolare affermazione: quel che riguarda il Quirinale non c’era nel testo precedente, da me promulgato. Che vuol dire? Il testo precedente è caduto, né si può immaginare che avendolo lui firmato, come tutte le altre leggi, del resto, sia divenuto immodificabile. Anche questo riferimento, insomma, tecnicamente ultroneo e politicamente significativo, è indirizzato nel senso di un ruolo assai attivo del Presidente, quasi indicando una necessità di consultazione preventiva.

Per carità, si può discutere di tutto. Ma in quale parte della Costituzione è ravvisato l’appiglio che rende tale prassi non solo regolare, ma anche obbligatoria? E se il Presidente fa pesare il suo giudizio, certamente ponderato e soppesato, nei lavori di una commissione parlamentare, sarà poi difficile tenerlo fuori dalle polveri dello scontro politico. Il che, forse, non è del tutto saggio.

Condividi questo articolo