Pier Luigi Bersani e Niki Vendola si sono visti a pranzo, reduci dai funerali dei militari caduti in Afghanistan. Nulla di male, la vita continua. Un tempo, forse, nella giornata di lutto si sarebbero evitate le battute di spirito e le risate. Ma siamo, oramai, assuefatti ai canoni estetici delle trasmissioni televisive che contengono tutto, i nostri umori e i nostri sentimenti sono capaci di voltare pagina, passando dalla lacrima alla risata. Forse troppo. Comunque, alla fine del pranzo Bersani ha detto di non ricordare chi lo ha convocato, mentre non è noto chi abbia pagato il conto. Magari hanno fatto alla romana. Veniamo alla sostanza. Del colloquio, non del pasto.
Vendola è uno che è stato capace, per due volte, di battere i supponenti e potenti (si fa per dire) vertici del Partito Democratico, dimostrandosi assai ben radicato in terra pugliese. Dopo la seconda vittoria ha deciso di guardare oltre i confini della regione, affidandosi ad una sorta di sincretismo: gira con il rosario in tasca, è molto cattolico, vive con un compagno straniero e vorrebbe tanto adottare un bambino. Amen. Bersani guida un partito reduce da molteplici sconfitte, ma pur sempre la più grossa nave della sinistra. L’accordo, secondo quanto essi stessi hanno detto, verte su due punti: aprire una discussione per capire quali contenuti dare alla sinistra e tenere primarie di coalizione, in modo da decidere chi debba guidarla alla riconquista del governo. Ciascuno fa quel che crede, ma una tale impostazione non è ragionevole, né promettente.
Bersani ha detto che le primarie serviranno a scegliere il più idoneo a battere Silvio Berlusconi. Se la mette così ha già stabilito che non sarà un uomo del suo partito, perché per fare una riedizione dell’Ulivo è necessario che ciascuna delle componenti non si senta assorbita dalla più grossa e che, quindi, il comandante in campo le sia estraneo. Una volta era Romano Prodi, che la sinistra stessa provvide a far furoi due volte, dopo due conquiste di Palazzo Chigi. Ora le cose sono più complicate, perché i partner con cui vedersela sono Antonio Di Pietro, Niki Vendola e Beppe Grillo. Se la imposta così, quindi, Bersani perde ancora prima di gareggiare.
Come se non bastasse, ha lasciato a Vendola il compito di dire le cose più ragionevoli: non siamo interessati ad una coalizione purché sia, tenuta insieme dall’essere “contro”, vogliamo discutere dei programmi, per superare il berlusconismo. E questo, lo si condivida o meno, è un ragionamento politico.
Nelle democrazie assennate, specie quelle di stampo maggioritario, la cosa si risolve nei congressi di partito: la leadership che ha perso le elezioni si fa da parte e si sfidano pretendenti che rappresentano diverse linee politiche. Chi vince prende su di sé la responsabilità della successiva sfida elettorale. Solitamente le cose funzionano così: se vince un leader estremista, che piace tantissimo ai militanti del partito, è largamente probabile che le elezioni saranno perse, se, invece, vince un leader moderato, o ammiccante, capace di utilizzare parte del linguaggio degli avversari, che ne riconosce i meriti e ne contesta l’avvenire, proponendo soluzioni diverse, i militanti duri e puri storcono la bocca e gridano al tradimento, ma gli elettori credono di potere veramente scegliere e la vittoria, se non sicura, è almeno probabile. Ma la nostra è una democrazia claudicante, che si regge su una gamba sola e che non sa essere maggioritaria, sicché la frittata si gira: prima scegliamo l’uomo poi vediamo cosa dovrà dire. Una comparsa, fin dall’inizio. O una mascheratura, come fu Prodi. Pare, purtroppo, che non si sappia procedere in modo diverso.
Sul lato destro questi problemi non ci sono, perché il capo è anche il fondatore e nessuno pensa di sfidarne la funzione. Ma non per questo si fermano i processi erosivi, perché ogni volta che vincono le elezioni poi perdono i pezzi: Umberto Bossi fu il primo, successivamente rientrato, poi Pier Ferdinando Casini, ora Gianfranco Fini.
Il risultato è un sistema sostanzialmente fermo, il cui equilibrio, o squilibrio, dipende dagli interessi e dalle forze che ruotano attorno, in un clima istituzionale costantemente improntato alla trama e all’imboscata. Così si producono scorie radioattive, senza neanche avere acceso il motore atomico. L’aria si fa pesante e s’appanna la via che porta fuori dalla pozza. Il presente sembra essere eterno, pur restando fragilissimo e vicino al collasso. Speriamo, almeno, che abbiano mangiato bene.