Se ne può cogliere l’aspetto comico, come l’annuncio lanciato dal megafono torinese: «Il corteo partirà fra poco, stiamo aspettando quelli che sono rimasti bloccati dal traffico». Per forza: hanno detto che avrebbero bloccato i trasporti, in strada ci sono più macchine, alcune strade sono sbarrate, sicché si resta imbottigliati. Sia i manifestanti scesi tardi da casa sia i lavoratori usciti presto da casa, sperando di raggiungere il posto di lavoro. Oppure si può osservare che il numero delle bandiere è pari a quello dei manifestanti: quelle dell’Usb e quelle palestinesi, con appositi slogan contro Israele. Che con la legge di bilancio non c’entra nulla. Ma l’aspetto che più conta è quello dei precetti, delle leggi che non ci sono e di quelle sbeffeggiate, di scioperanti che non si sa chi rappresentino e di ministri che – anziché occuparsi di quel che non hanno fatto – pensano sia una buona scappatoia prendersela con il Tribunale amministrativo regionale. L’ennesimo venerdì di scioperi con pochi scioperanti, molti disagi, tanto gioco agli opposti celodurismi, con abbondante discredito delle istituzioni.
Una destra cui prema la legge e l’ordine non può permettersi di affrontare questi appuntamenti scagliandosi contro chi assolve i propri doveri istituzionali. Una sinistra cui premano le condizioni dei lavoratori non può affrontare il gioco al rilancio senza avere il coraggio di sostenere l’importanza della rappresentanza sindacale, quindi ponendo il problema della rappresentatività.
Il diritto di sciopero è tutelato dalla Costituzione, ma l’articolo 40 non dice che il primo che passa ha diritto a fermare una città: «Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano». Il compito di fare le leggi spetta al Parlamento. Chi siede in Parlamento, da decenni, non se la può prendere con le decisioni giurisdizionali perché è del Parlamento il dovere di fissare i precetti e anche le regole per la loro applicazione, ivi compresi i ricorsi avverso gli atti amministrativi. E c’è una cosa su cui il Parlamento è inadempiente, dal 1948: la regolamentazione dei sindacati. Talché non si sa più chi rappresenta cosa e a nome di chi. Si legga l’articolo precedente, il 39: «L’organizzazione sindacale è libera». Benissimo. Ma ai sindacati è imposto l’obbligo di registrarsi «secondo le norme di legge». Attenzione: «È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica»; ne discende che possono stipulare contratti collettivi di lavoro «rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti». Tutte cose che sono nella Carta e rimaste sulla carta. Nessuna legge è stata fatta sugli statuti, nessun criterio è stato fissato per valutare la rappresentanza. Risultato: ciascuno organizza il suo sciopero del venerdì, in nome di un diritto scritto nella Costituzione che non ha mai letto.
Un tempo era la triplice sindacale – Cgil, Cisl e Uil – a far valere la propria forza. Ma poi è venuta meno, la maggioranza dei loro iscritti sono pensionati e i vari sindacati detti ‘di base’ (ricordate i Cobas?) sono nati contro la triplice. Lo sciopero di ieri è stato indetto dall’Usb (Unione sindacale di base). Fa senso una destra che pensa di prendersela con chi giudica in base alla legge e dimentica di non essere stata capace di fare la legge. Fa non meno senso una sinistra che pensa di voler stare dalla parte dei lavoratori (che numerosi votano dall’altra parte) senza avere il fegato di dire che non basta definirsi “sindacato” per poi pretendere di rappresentarli.
Bisogna mettere mano ai precetti, non trincerarsi in precettazioni che non diminuiscono il caos, semmai gli trovano nuove colorazioni. Dal 1948 a oggi le città sono cambiate e si bloccano già agli annunci e con le deviazioni del traffico impazzito. Chi ha veramente a cuore la tutela dei diritti si dedichi ad assolvere i propri doveri. Chi ha a cuore l’importanza (enorme) dei sindacati si occupi di chi bestemmia il nome dei lavoratori.
Davide Giacalone, La Ragione 14 dicembre 2024