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Preferenze

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Avere una sanità eccellente e un servizio sanitario scadente, talora repellente, è una dannazione dalla quale si deve pur uscire. E visto che stiamo scrivendo di sanità, sarà bene chiarire che le lunghe liste d’attesa – per gli esami diagnostici e gli interventi – non sono la malattia ma il sintomo. Sono dolorose quelle liste e possono essere mortali, ma non basta placare il dolore: se ne deve cercare la causa. Che, per una strana congiunzione astrale, s’è presentata nel corso di una seduta parlamentare in cui la presidente del Consiglio veniva interrogata: il sintomo e la causa sono stati accostati ma non sono stati riconosciuti.

Capita così che una presidente del Consiglio che non perde occasione di ripetere che l’Italia è una «Nazione» (cosa che è scritta nella Costituzione, nulla di strano, ma viene ripetuta con enfasi, a sottolineare che identità e compito della destra sono la tutela della nazionalità dello Stato), un capo politico che in un vicino passato si era detto contrario al regionalismo proprio perché frazionava la Nazione, circa le liste d’attesa si ritrovi a rispondere che ci si deve rivolgere alle Regioni. Perché loro sono la competenza e la colpa. Le Regioni rispondono a giro, negando e accusando di fare a scaricabarile. Il che, come minimo, segnala un enorme problema istituzionale di delimitazione di competenze e responsabilità.

Ora, tralasciando il fatto che nel giugno scorso è stato adottato – con urgenza – un decreto legge che avrebbe dovuto porre rimedio alle liste e che tale decreto dopo un anno aspetta ancora d’essere attuato, la presidente del Consiglio ha ragione: non esiste più da tempo un Servizio sanitario nazionale, esistono tanti Servizi sanitari regionali. E siccome ce ne sono di buoni e ce ne sono che fanno schifo, capita che in alcune aree le liste siano interminabili e in altre si debba far fronte anche ai malati di altre Regioni, che prendono la valigia per non prendere l’ambulanza. Il che aumenta il deficit delle Regioni che non funzionano e rende più complicata la vita di quelle che funzionano. Difatti sono tutti scontenti, gli uni e gli altri.

Se lo Stato, se la Nazione non ha capacità d’intervento – e non ce l’ha – finisce d’essere Stato e Nazione. Il che appare tanto più assurdo se in bocca proprio a chi mena vanto del proprio nazionalismo. Ma se il problema è svellere il regionalismo disfunzionale, magari assegnando la gestione a chi si è dimostrato più bravo, perché il governo della Nazione ha presentato un disegno di legge sul regionalismo differenziato destinato a ingigantire il problema anziché a risolverlo?

E qui si arriva al sistema elettorale. Pare che ci sia consenso nel reintrodurre le preferenze: il che segnala, se non altro, con quale velocità ciascuno dimentica le cose che sostenne. Gli accordi sono belli, ma quello è un dettaglio. La sostanza è che i tanti sistemi elettorali che si sono succeduti (dopo quasi mezzo secolo di stabilità) – tutti falliti – hanno in comune quel che si promette anche per il prossimo: il premio alla coalizione che prende più voti. Peccato che: a. nessuno ha mai preso, dal 1994, la maggioranza assoluta dei voti (di cui alla legge del 1953, ingiustamente detta “legge truffa”); b. le coalizioni sono false e perdenti. False perché si aggregano soltanto per vincere, assemblando pezzi incompatibili. Perdenti perché nella scorsa legislatura vinse chi le rifiutava entrambe.

Cosa c’entra con la sanità? C’entra che la nazionalista Meloni cade subito se rompe con la Lega, la quale fu separatista e poi ripiegò su un regionalismo che avrebbe preteso fosse federalista. Il meccanismo delle false coalizioni è inesorabile: le minoranze prendono prigioniere le maggioranze. Per questo, dopo mezzo secolo di governi centristi, siamo nel trentennio degli estremisti.

Quindi, cari italiani, il rimedio alle liste d’attesa non c’è perché per curare il male si dovrebbe scegliere un solo modello, mentre barcamenandosi fra opposti va ancora bene se si lenisce il sintomo. E neanche a questo si riesce.

Davide Giacalone, La Ragione 9 maggio 2025

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