Politica

Rabbia e paura

Non è paura, ma rabbia. Più lo si sente e legge e meno la cosa convince: a spingere molti elettori europei a riempire i serbatori elettorali di formazioni con toni e contenuti comburenti, non è la paura di quel che può accadere, ma la rabbia per ciò che è accaduto. O che si crede sia accaduto. Poco importa che i voti s’indirizzino a destra, come sta capitando in Francia, o a sinistra, come è capitato in Grecia e in Spagna, o verso formazioni non catalogabili secondo quell’orientamento, come in Italia. Se si guarda dentro le rispettive propagande si scopre che si somigliano in quel che conta: cercare in altri, talora immaginari, i colpevoli del disagio crescente, soffiando sulla previsione di peggioramento. Né importa se il colpevole lo si cerca verso l’alto o verso il basso, disegnando poteri forti che si nutrono di finanza piratesca o immigrati nutriti con ricchezza altrui. L’importante è che la rabbia trovi un bersaglio lontano dagli elettori blanditi. E’ comprensibile, ma non giustificabile, che taluno se la prenda con l’imbonitore di turno, additandolo quale causa del disfacimento. In realtà quello è solo un sintomo, mentre il male sta nell’incapacità delle classi dirigenti di raccontare quel che succede e quel che si dovrebbe fare. Il problema è la loro viltà, non lo schiamazzo altrui.

Oggi la Francia torna al voto, con il capo del governo che vagheggia di “guerra civile”, ove la calamita lepenista attiri troppi consensi. Triplo errore. Primo, perché sono elezioni amministrative, sicché anche chi governa l’intero Paese potrebbe darsi una calmata. Secondo, perché non è saggia dottrina quella di dare la colpa agli elettori, se le cose non vanno come si vorrebbe, giacché le democrazie non comprendono l’errore dei votanti. Terzo, perché parlando di guerra civile non si fa che spaventare la gente, ben sapendo che la paura, semmai, porta voti alla conservazione dell’esistente, quindi al governo. Se si alimenta la paura, però, poi non ci si lamenti della reazione.

La rabbia si fonda su un racconto falsato della realtà. Veniamo da decenni di continua crescita della ricchezza, collettiva e individuale. L’Europa nella quale viviamo raccoglie il 7% della popolazione globale, produce il 25% della ricchezza e consuma il 50% della spesa sociale. Ma coltiva lamentazioni e pianti di miseria. Basati sul fatto che la ricchezza non cresce più come prima, che il mantenere molti che non producono nulla è sempre più costoso, che l’aprirsi del mondo alla globalizzazione ha offerto possibilità inedite a chi sa cavalcare la novità, ma spaventato chi ciucciava stando a nanna. Invece di spiegare cosa è necessario fare per adeguarsi e dominare gli eventi, invece di dire che si deve essere capaci di studiare e lavorare di più e in più numerosi, si preferisce governare grazie ai consensi raccolti con i bonus e le regalie. Questo produce bonus a nulla e impoverisce sempre di più, alimentando lo spaesamento e il terrore che vorrebbe combattere.

A questo punto arrivano quelli che raccontano favole irragionevoli, ma pur sempre con riscontri reali. C’è chi spiega quanto la ricchezza dei cittadini sia intaccata e fiaccata dal proliferare degli immigrati, il che dovrebbe trovare smentita nei numeri della produzione e dell’integrazione, invece trova conferma in quelli della clandestinità e della dilapidazione. C’è chi spiega che i poteri occulti delle finanza ideano sempre nuovi trucchi per suggere il sangue dei lavoratori, il che dovrebbe trovare smentita nel crescere del patrimonio degli italiani e nei guadagni effettivamente realizzati da molti risparmiatori, i cui confini si sono positivamente allargati, invece trova conferma in ripetute vicende di depredazione, oltre che nel malcostume accaparratorio di gente che meriterebbe punizioni penali. E così andando, fino a radicare la convinzione che la mia vita sarebbe migliore se le locuste della miseria e le cavallette dell’arricchimento non avessero assaltato il campo ove germogliava il mio raccolto. Il passo successivo consiste nel trovare l’interprete politico di tali sentimenti, in un mescolarsi di moralismo e rigetto istituzionale. Poi li trovi a intascare e profittare quanto e più degli altri, ma è faccenda che viene dopo e che non vaporizza i sentimenti evocati, semmai il loro riporsi in questo o quel contenitore.

Contro queste derive servono scelte, non predicozzi. Anche perché sentirsi fare la predica da chi, per lo più, non ha lavorato una sola ora nella vita, induce istinti non commendevoli.

Pubblicato da Libero

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