Politica

Regioni e fisco

L’Italia non ha bisogno di alcun federalismo, il ministro Corrado Passera non s’attardi su parole d’ordine che hanno già prodotto abbastanza danni. C’è bisogno di un profondo riordino dell’articolazione pubblica, cancellando alcuni istituti e cambiando non pochi confini. Accentuando sì l’autonomia locale, ma coniugandola con la responsabilità fiscale. Non c’è una sola ragione al mondo, che non sia mera propaganda, per chiamare “federalismo” un tale processo. Abbiamo bisogno di metterci nella condizione del land tedesco, la Renania-Palatinato, il cui governatore, il socialdemocratico Kurt Beck, s’è dimesso per avere fatto investimenti sbagliati e avere accumulato troppo debito. Noi non risparmiamo critiche al governo tedesco, ma ammiriamo il rigore di un Paese in cui si va via per avere mal governato, non solo se beccati a ciucciare quattrini pubblici per soddisfacimenti privati. Anche in Germania non mancano scandali, come ovunque, ma non è endemico il ricorso al sotterfugio per dimostrare a sé stessi d’esistere intascando di soppiatto.

Nel mentre i presunti federalisti si andavano romanizzando, gli altri, per far loro concorrenza, varavano la riforma del titolo quinto della Costituzione (2001, maggioranza di sinistra). Da lì in poi siamo riusciti a cumulare una notevole quantità di errori. Ora si deve correggerli, non perseverare ciecamente, magari illudendosi che le difficoltà della Lega lascino scoperto uno spazio elettorale. Qui allo scoperto resta l’Italia.

Prima questione: le regioni nascondono debiti enormi, specie in campo sanitario, decisamente superiori a quelli iscritti a bilancio, il che comporta un pericolo nazionale in caso di default, di fallimento, perché quei debiti andrebbero a sommarsi a quello già insostenibile dello Stato, facendoci colare a picco. Forti di questa condizione molti governatori si guardano bene dal fare il duro lavoro dei risanatori, chiedendo allo Stato, di volta in volta, quel che serve per tamponare le falle. Così procedendo ci troveremo pieni di buchi e senza più toppe.

Seconda questione: fra le regioni italiane c’è differenza di pressione, ma non concorrenza fiscale. Questo capita perché l’imposizione di natura regionale è marginale, sicché capita che l’Irap di una sia più alta di quella che si paga altrove, ma non capita che le imprese decidano d’insediarsi in un posto anziché in un altro in ragione di quel dato. Perché è troppo poco e nessuno si fida che duri abbastanza a lungo. Una dannazione.

Terza questione: le classi dirigenti regionali sono la seconda o la terza scelta delle nazionali (già patetiche), laddove dovrebbe essere il contrario, facendo crescere fino al governo centrale chi ha meritato in sede locale. Ciò lo si deve al fatto che i partiti sono tutti centralisti e terzinternazionalisti (comanda il vertice), anche quelli che si dicono secessionisti.

Per rimediare si deve agire sul terreno istituzionale, perché se si aspetta che sia l’umanità a cambiare … campa cavallo. Si deve abbattere il carico fiscale nazionale, abbattendo anche la dimensione dello Stato e l’intermediazione politica della ricchezza (se il capo di Confindustria giunge a chiedere meno fisco in cambio di meno incentivi, è segno che solo i politicanti restano attestati in difesa del consociativismo). Il debito lo si paga con la crescita, non con le sanguisughe. Si devono spostare molte competenze a livello locale (tenendo presente che i comuni fanno parte della storia d’Italia, mentre le province e le regioni sono invenzioni amministrative), attribuendo a chi governa una seria autonomia fiscale. In altre parole: spenderanno soldi che prima si saranno procurati. Facendo diventare la politica quel che dovrebbe essere: eleggete me perché vi chiederò meno soldi, o eleggetemi perché ve ne chiedo di più, ma realizzerò le seguenti cose. Poi si controlla e la volta dopo si ridecide.

Da noi funziona: propongo meno tasse e il ponte fra Roma a Cagliari; poi non lo faccio perché si oppone la capitaneria di porto; nel frattempo creo una società pubblica dove ci metto i miei congiunti; provvedo a pucciare il biscotto nel latte pubblico; e la volta dopo mi ripresento e dico: ora il ponte facciamolo con Gibilterra, però battiamo quei bastardi che mi sono contro. Risultato: da una parte cresce la voglia di mandarli tutti oltre l’inesistente ponte, dall’altra si resta ostaggio di una tale accolita di costosi inconcludenti.

Si discute di Monti bis (oltre tutto sulla base di un’intervista statunitense che, se la si guarda, suona più come disimpegno che come impegno). Il fatto è che Monti è prezioso, a fronti di certa classe politica, ma i governi non eletti impoveriscono le democrazie.

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