Allentatasi la presa berlusconica la destra italiana riscivola verso antichi fantasmi. E’ bastato che s’aprisse una parodia di competizione e già il linguaggio è tornato quello del giustizialismo. Dalle manifestazioni inneggiati al manipulitismo, allestite dalla destra milanese fuori dal tribunale, alla discriminante dell’essere o meno “inquisiti”, è come se ci fosse stata una parentesi d’amnesia e finzione. Parentesi che traslocò il giustizialismo fascistoide in casa della sinistra. A suo imperituro disonore.
Già solo questo sarebbe sufficiente per domandarsi: che stanno facendo? Possibile che non si rendano conto di mettere in pratica una sora di collettivo suicidio? Possibile, purtroppo. E la causa è tutta politica e culturale, capace d’incarnarsi nella superba finzione delle primarie.
Le primarie furono il trionfo del berlusconismo sulla e nella sinistra. Fu Silvio Berlusconi, nel 1994, a inventare la formula: tutti uniti per battere la sinistra. La quale, nel 1996, si presentò al guinzaglio dell’egemonia altrui: tutti uniti per battere Berlusconi. Poi Berlusconi inventò il nome sulla lista, come se gli elettori votassero il capo del governo. La sinistra ci credette, al punto di organizzare la barzelletta delle primarie, in modo da scegliere il candidato al posto che non esiste, che non c’è. Furono sempre false, le primarie sinistre: prima per plebiscitare Romano Prodi, poi per fortificare Valter Veltroni. Al terzo giro s’è presentato Matteo Renzi, la cui forza consiste in un’evidenza politica: la sinistra a guida comunista e copertura cattolica è destinata a perdere anche quando vince. Questa è la sua forza, che rimarrà tale anche quando sarà sconfitto alle primarie (ci manca niente). Così, nel 2012, una destra disfatta dall’incapacità di rispettare la rappresentanza dei propri elettori crede che sia una via d’uscita recitare la commedia delle primarie, assumendo il costume della sinistra, quindi subendone l’egemonia, dopo che quella c’era caduta cedendo all’influenza dominante del berlusconismo. Roba da farsi curare a Vienna, se solo tornasse a ricevere il vecchio Sigmund.
Giungendo all’appuntamento in ritardo, in stato avanzato di decomposizione, la destra usa le primarie per portare alla conta le pulsioni identitarie, con il risultato che il peggio viene a galla. Spettacolo triste, prima ancora che preoccupante. Così procedendo otterrà un risultato opposto al necessario: anziché stabilire che non erano sbagliate le idee e le speranze agitate all’alba della seconda Repubblica, ma incapace e inadatta una classe dirigente raccattata per fedeltà più che per capacità (la più consistente colpa politica di Berlusconi), finiranno con il rinnegare il buono pur di affermare che quella stessa classe dirigente deve restare al suo posto. Oltre tutto dimenticando che, senza Berlusconi, un posto manco ce l’ha. Dove serviva un cambio di passo politico s’è pensato di metterci un cambio di scenario organizzativo. Dove serviva un patto istituzionale con i riformisti, anche quelli che abitano nella sinistra, s’è pensato di sopravvivere chiamando le tifoserie alle urne false, così, oltre tutto, favorendo i conservatori della sinistra comunista. L’illusione si trasformerà in incubo, quando si apriranno le urne vere e si formerà una legislatura morta nella culla.
Detesto le primarie? No, detesto quelli che si prendono in giro da soli e fingono di credere che con i trucchi si rimedi ai guasti politici. Le primarie sono cosa utilissima, ma devono essere regolate per legge e presuppongono sia un sistema istituzionale (presidenziale) che un sistema elettorale (uninominale) radicalmente diversi dai nostri. Fin quando i praticanti delle primarie saranno gli stessi che conservano sia l’assetto Costituzionale che il sistema elettorale, perpetuante le coalizioni arlecchinesche e consegnante alle segreterie la scelta dei parlamentari, lo spettacolo sarà quello già in scena. Inguardabile.
E’ la terza volta che la sinistra convoca le primarie, per le elezioni nazionali. Le prime due volte non hanno funzionato. Nel 2005 e nel 2008 non si trattava di decidere il candidato, già designato, ma di conferirgli la forza necessaria a evitare che fosse il vero capo della coalizione, l’espressione unitaria del partito più influente, il federatore capace di tenere assieme anime diverse. Furono il tentativo di esorcizzare il 1996, quando la sinistra vinse le elezioni e poi si dilaniò, dando vita a quattro governi e tre coalizioni diverse, nel corso della medesima legislatura. Non hanno funzionato, com’è noto: Romano Prodi fu deposto dalla sua stessa coalizione, portando alle elezioni anticipate, e Valter Veltroni fu bruciato dopo la sconfitta. Siamo al terzo giro, in condizioni del tutto diverse.
Non possono essere l’occasione per scegliere chi presiederà il governo, dato che tale elezione diretta da noi non esiste e dato che la scelta del presidente del Consiglio spetta al presidente della Repubblica. Per chi si fosse distratto faccio osservare che, da un anno, il governo è presieduto da chi non s’è mai candidato, né mai lo farà. E già questo primo punto fa riflettere: se tieni le primarie, se, quindi, accetti l’idea che si scelga il leader e che lo si sottoponga al giudizio degli elettori, è segno che sei favorevole ad una Repubblica di tipo presidenziale, o a un sistema di premierato, perché se non sei favorevole o sei scemo o sei un imbroglione, e, allora, perché non lo proponi formalmente, nell’unica sede preposta, vale a dire in Parlamento? Comunque: per mancanza di riforme costituzionali ed elettorali le primarie non servono a designare il candidato premier, dato che tale candidatura non esiste.
Neanche sono l’occasione in cui, come le due volte precedenti, una coalizione disomogenea prova a dimostrarsi unita votando compatta un solo uomo. Al di là del cattivo funzionamento, difatti, la sinistra ha effettivamente imparato a scegliersi, in questo modo, il candidato, e lo ha fatto (ne va riconosciuto il merito) nelle occasioni in cui il sistema già prevede elezioni sul modello presidenziale, vale a dire per quelle comunali e regionali. Tanto per citare due esempi, diversi, la battaglia in Puglia, per chi dovesse essere il candidato alla presidenza della regione, e quella a Milano, per chi dovesse essere il candidato a sindaco, sono state vere. E così in altri luoghi. Si sono scontrate cordate antagoniste, senza moine e senza plebiscitarismi. Il partito egemone della sinistra, il Partito democratico, ha perso, dimostrando d’essere un buon portatore di voti, ma un pessimo mobilitatore di militanti (ammesso che esistano ancora). Lo stesso Matteo Renzi è nato in uno scontro di quel tipo, battendo, a Firenze, il candidato ufficiale del Pd. Ecco, dopo queste esperienze il terzo giro delle primarie nazionali non può modificare il quadro costituzionale nel quale si muove, ma trascina nella partita più grossa e importante un costume affermatosi a livello locale.
In sede nazionale è evidente che i candidati della coalizione rappresentano il contorno, mentre il piatto forte è costituito dallo scontro fra i due candidati interni all’area politica del Pd. Il che, però, pone un problema che le regole delle primarie hanno cercato di cancellare e che, invece, è ineludibile: la linea politica. A chi vota alle primarie chiedono un impegno a votare per la sinistra, chiunque sia il vincitore. Già questa è un’ipocrisia, per non dire una falsità: anche nel gruppo dirigente della sinistra ci sono persone che non voterebbero mai l’antagonista prevalente. A chi vota le primarie chiedono di condividere un programma alquanto generico, ma è fin troppo evidente che la posizione politica incarnata da Renzi è diversa da quella rappresentata da Bersani, incompatibile con quella di cui è espressione Nichi Vendola. Il che porta ad una prima conclusione: le due tornate primarie del passato erano un imbroglio organizzativo, queste sono un fraintendimento politico, perché fanno finta di non vedere che si misurano disegni che non possono convivere.
E qui si pone la domanda dalla cui risposta dipende non solo la sorte di questa sinistra, ma anche quella della prossima legislatura: cosa farà Matteo Renzi, dopo avere perso? Prima, però, devo dare conto del perché credo che perda: se votassero gli italiani Renzi vincerebbe, ma vota il popolo di una sinistra ancora largamente identitaria, che sente il fascino ma non subisce l’attrazione delle contaminazioni. Se Renzi vincesse salterebbe tutto, a cominciare dal Pd e dal Pdl. Sarebbe un evento benefico, ma è largamente improbabile. Renzi perderà. Ha già perso nel momento in cui ha accettato le regole delle primarie, non ha provocato la rottura e ha messo nel conto di soccombere. Dunque: che farà? Non che il mondo dipenda da lui, ma è rilevante al fine di capire se una legislatura che s’accinge a nascere morta, se il progredire di quella che Leonardo Sciascia chiamò la “linea della palma”, quindi la sicilianizzazione dell’Italia, prelude ad un affermarsi della linea della salma o se lo sfasciarsi e ricomporsi delle forze politiche sconfitte (lo è il Pdl tanto quanto il Pd, sebbene il secondo sia in netto vantaggio sul primo) innescherà un cambiamento vero. Non gattopardesco.
Ebbene, se Renzi s’acquatterà, attendendo che il logoramento bersaniano faccia scoccare la sua ora, se, quindi, adotterà un costume democristiano, sarà finito. Un fuoco di paglia. L’Italia chiederà gli aiuti europei, il dopo non somiglierà al prima, la realtà è assai più forte dei giochini. Se penserà d’essere il riferimento di un elettorato altrimenti senza rappresentanza, se capirà che annaspa nel vuoto anche quello che, con analoghi bisogni, s’indirizzò al centro destra, allora ripartirà dai risultati elettorali per cercare una rottura non più ricomponibile. Non confinandosi dentro l’area della sinistra, ma ricongiungendosi agli altri naufraghi del riformismo italiano. Sarà, se lo sarà, un atto simbolico, che segnerà la fine delle famiglie ideologiche, riaccomodatesi, nel corso della seconda Repubblica, al piano inferiore del berlusconismo e dell’antiberlusconismo.
Ci vorrà coraggio. E visione. Come ce ne vogliono per raccontare al centro destra la reale condizione della sua decomposizione. Ma ce ne vogliono meno che a far finta di niente, supponendo che il futuro possa essere un passato rimodernato.