Politica

Reti cattoliche

L’appuntamento dei politici cattolici, epigoni della storia democristiana, non è fissato nelle sale del governo, in questa legislatura, ma prima nelle urne, per provare ad indirizzare il dopo-Berlusconi, che equivarrà alla fine della mai nata seconda Repubblica, poi nel nuovo Parlamento, ove si ricomporranno le cordate politiche. Non tornerà la democrazia cristiana. Di quel partito dominante potrà rinascere il ruolo nazionale, non quello politico.

La riconcentrazione cattolica ha una ragione strutturale: mettere a frutto il vantaggio di avere conservato potenti reti di presenza territoriale e rappresentanza degli interessi. Il berlusconismo ha potuto farne a meno perché è nato sfruttando una paura e lanciando un sogno, facendo da argine alla sinistra sospinta dalle procure e sventolando l’ambizione della modernizzazione. Non era facile credere al partito liberale di massa, ma non ne mancavano le premesse. Giunti alla chiusura di quel ciclo ci sono alcuni che pensano di poterne incarnare il secondo tempo, sono convinti che il loro nome possa sostituire quello di Berlusconi, che il loro appello abbia la stessa presa. Non solo arrivano in ritardo, ma sembrano anche un po’ ritardati. E mentre la sinistra affoga nell’avere sprecato un ventennio senza essere capace di rinnegare la storia comunista e fondare l’alternativa democratica, i cattolici s’apprestano ad occupare il vuoto grazie alla forza delle loro reti.

Tali reti, però, sono spesso in competizione fra di loro, così come diverse sono le opinioni presenti in Vaticano (il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, la pensa diversamente dal segretario di Stato, Tarcisio Bertone). Vero, ma era così anche all’alba dell’Italia repubblicana: Alcide De Gasperi e Luigi Gedda non erano simili, e neanche Amintore Fanfani e Gabrio Lombardi. Quel che non ci sarà più sarà l’appello delle gerarchie all’unità politica della cattolicità. Sarebbe fuori dal tempo e, per giunta, priva di rappresentanza, dato che si fa fatica a trovare un leader cattolico la cui situazione familiare sia in linea con i dettami della fede. Cosa che, naturalmente, per me non ha rilievo alcuno, ma nel fare il partito dei cattolici è pur sempre un dettaglio da non trascurare.

Il come e il quando ruota tutto attorno ad una variabile: il sistema elettorale. Se ci fosse il proporzionale lo avrebbero già fatto, il governo sarebbe già caduto e le elezioni celebrate. Ma né con l’attuale né con il precedente possono sentirsi sereni. Ecco perché i politici cattolici in grado d’intendere non li vedrete in fila, per il referendum (né ci vedrete me, laico non del tutto scemo, perché quei sistemi servono solo a tenere uniti poli disomogenei). In realtà sia il sistema francese (che taglia le ali), sia quello tedesco (che mescola il proporzionale con la stabilità governativa), sono più coerenti con quel disegno. La difficoltà, per i cattolici, consiste nel far valere la loro forza e imporre la riforma ora, il che comporta un traumatico disallineamento per quelli che si trovano a sinistra e una buona disposizione generare a lasciare in vita il governo fino ad operazione conclusa. Poi si passa al voto. Li ferma, fin qui, la paura. Quella di abbandonare le vecchie baracche senza approdare ad una nuova casa. Quella che qualcuno faccia scherzi da prete, abbandonandoli allo scoperto nel momento in cui si sente forte. Perché anche i cattolici del centro destra dovranno pagare un prezzo, in termini di minore lealtà verso chi li ha, fin qui, tenuti in vita.

La politica non è materia per anime pie, ma il cinismo non deve essere mai fine a sé stesso, bensì al servizio di un disegno. Se l’approdo sarà la riscrittura costituzionale e la stabilizzazione, allora il cammino, già iniziato, avrà un senso. Se, invece, si punta alla sola riappropriazione di uno spazio, anche di potere, non basterà la Cei e non basteranno i predicozzi per agguantarla.

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