Politica

Riforme alla parmigiana

La Confindustria, che a Parma celebra i cento anni di vita, s’è rivolta al presidente del Consiglio e gli ha detto: Silvio, fa quello che ti pare, ma fallo, e fallo subito. Lui s’è rivolto al presidente degli industriali, Emma Marcegaglia, e le ha risposto: posto che molte cose le ho già fatte e posto che non c’è il declino del quale parli, sono anche io convinto che siano necessarie grandi riforme istituzionali. Gli industriali ribattono: è vero, ma alle regionali gli elettori vi hanno riconfermato la fiducia, quindi non ci sono scuse, che il governo le faccia, cominci pure dalla giustizia, ci dia qualche speranza di minore pressione fiscale, ma si muova. E’ stato a quel punto che ha preso corpo, davanti ai convenuti, il fantasma del problema italiano: ciascuno parla di quel che gli pare, ma non è in grado di capire quel che accade. Si rammentino due punti: a. prima dei due presidenti aveva parlato Nouriel Roubini, economista, che aveva raccontato l’evidenza dei dati, secondo i quali perdiamo produttività da molti anni, dopo di che nessuno se l’è filato; b. le riforme non le fa il governo, ma il Parlamento, ed è appunto questo il problema che Berlusconi si porta dietro: è a capo di un’istituzione priva di poteri fondamentali. Se non si parte da queste realtà, si può andare avanti per anni con i preliminari o, se preferite un linguaggio più pane e salame, con le chiacchiere. Ma risultati, non se ne vedono.

Berlusconi ha ricordato che i costituenti vollero un governo istituzionalmente debole, concentrando la forza sul Parlamento, perché desiderosi d’evitare un ritorno al regime. E’ vero, ma incompleto, perché il fenomeno precede il fascismo (e, in un certo senso, lo genera e consente) ed ha a che vedere con la formazione dello Stato unitario, l’ostilità delle gerarchie cattoliche e il conseguente orrore delle maggioranze. Da noi è considerato anomalo il principio che chi vince governa (e non significa “comanda”). Visto che l’anno prossimo ricorre il centocinquantenario dell’unità, Berlusconi studi il dossier ed eviti che siano mesi d’inutile e banale retorica. Lì sta la radice del male che ancora ci affligge.

La Marcegaglia ne approfitti per chiarirsi le idee, e con lei gli industriali. Perché è verissimo che perdiamo competitività, è verissimo che il nostro è un sistema nel quale non si decide, quindi si perde velocità produttiva, è incontrovertibile che la macchina burocratica è elefantiaca, costosissima e generatrice di disfunzioni, ma per porre rimedio non bastano i predicozzi, occorro decisioni e rotture politiche, che segnino l’inizio di un nuovo cammino. Se, però, proprio gli industriali sollecitano il governo a riforme “condivise”, non fatte “a colpi di maggioranza”, vuol dire che essi stessi sono pregni di quella cultura del concertare senza fare, del discutere senza quagliare, di quel modo di (non) procedere che da una parte criticano e dall’altra additano come esemplare.

Siamo fermi da troppi anni, ha ragione la Marcegaglia (per la verità lo ripetiamo da altrettanto tempo, ma fa niente), e questa realtà non cambia solo perché a Berlusconi non piacciono le definizioni che non profumano di buono. Ma la causa di quel blocco è esattamente nella mentalità che ella stessa vorrebbe veder vivere ancora, con una lunga stagione di dialoghi parlamentari, nel corso della quale si discute di sistema alla francese o alla tedesca, rischiando di non terminare in tempo e ritrovarsi alla turca. Quindi, semmai, dovrebbe chiedere l’esatto contrario: hai vinto, caro Silvio, ora trova la forza per superare la debolezza del governo, metti al lavoro i parlamentari che hai nominato, e dacci un sistema funzionante. Chi ci sta ci sta e chi non ci sta s’adegui. Perché un sistema democratico non crolla se le cose si fanno a maggioranza, ma s’immiserisce se si bloccano a minoranza.

Detto ciò, è chiaro che, come anche qui abbiamo ripetuto, occorre misura istituzionale e rispetto delle regole parlamentari (quello è il “confronto”, non le passeggiare romane). E occorrono idee chiare. Facciamo un esempio specifico: ieri, a Parma, Berlusconi è stato applaudito quando ha denunciato la patologia delle intercettazioni telefoniche. Applaudo anch’io: è uno sconcio. Poi il capo della maggioranza ha detto che si porrà rimedio, che tutti potranno parlare tranquillamente al telefono, grazie alla legge in discussione al Senato. S’illude, come s’illuse le altre volte che cercò di fermare la macchina giustizialista. Quella legge non cambierà molto, proprio perché sarà sempre subordinata ai giudizi di una macchina togata che risponde solo a se stessa. La soluzione dovrebbe essere diversa, aggredendo la natura istituzionale del problema: le intercettazioni le fanno gli inquirenti, per garantire la sicurezza di tutti, ma poi non costituiscono prova, non si depositano, quindi, se esce una sola riga, s’incriminano quelli che le avevano in mano. Le indagini sono salve e non c’è discrezionalità nel giudicare chi è evidentemente colpevole e chi no (che sono principi bislacchi e fallaci).

Gli industriali dovrebbero incalzare sul terreno della concretezza, non gareggiare su quello della declamazione. Dovrebbero saper dire cosa si deve fare, non chiedere che “la politica ci aiuti”. E il governo, non dovrebbe potersela cavare denunciando quel che non va. Sebbene, me ne rendo conto, sto forse parlando di un’altra Italia.

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